sabato 8 ottobre 2022

 

LA STREGA ENORMISSIMA

 

Il rogo è pronto, la piazza di S. Domenico comincia a popolarsi, fa già un gran caldo questa mattina, è il 14 luglio 1498 e sul quel rogo, ci salirò io Gentile Budrioli. Siate tutti maledetti, soprattutto tu Ginevra che non hai esitato a voltarmi le spalle. Forza cosa aspetti porco di un boia ad attizzare quel falò, sappilo io non ho certo nessuna paura, dopo quello che mi avete fatto patire nei giorni scorsi. Mentre grido, mi cosparge di pece e prepara anche il cappio da appendermi al collo lui dice:  “E' per farmi soffrire di meno, una grande intercessione dell'inquisizione nei tuoi confronti, fosse per me ti brucerei a fuoco lento”. Ancora non vuole darmi la soddisfazione di salire ed accendere la pira, aspetta che la piazza si riempia e tutti possano assistere.

“Puttana di una strega devi avere il tempo di riflettere ancora un po’ sulle tue malefatte,  risponde alle mie imprecazioni quel ribaldo mascherato”.

In un attimo rivivo tutta la mia vicenda.

Mi ero da poco maritata con Alessandro, io di nobile famiglia, lui notaro di gran nome, i Cimieri esercitavano lì al Torresotto di Portanova presso Piazza S.Francesco. Lui pieno di impegni per il suo ufficio, mi trascurava. Io ero assetata di conoscenza, avevo un debole per l'astrologia e le nuove scienze pure se osteggiate dalla chiesa ed una gran voglia di vivere. Mi sentivo stretta tra quelle quattro mura, Alessandro non faceva altro che farmi fare un figlio dopo l'altro e solo di questo secondo lui mi sarei dovuta occupare. In quel periodo seppi che all'Università Scipione Manfredi, teneva conferenze su quelle nuove tematiche. Mio marito era talmente occupato nelle sue faccende, che in un primo tempo neppure si accorse che io avevo preso a frequentare quelle lezioni. Ma una donna venne presto notata in quel contesto. Ed un giorno a pranzo “Mentre io sgobbo da mane a sera, tu ti trastulli prigioniera dell'oratoria di quel pianta balle, arrivato all'università. Mi meraviglio come l'Alma Mater abbia potuto arruolare tra le sue fila, un cialtrone del genere e tu nobildonna mia moglie, là a pendere dalle sue labbra, anziché qui ad accudire i tuoi figli”. Io non potei neanche replicare, sarebbe stato inutile, ogni cosa avessi detto si sarebbe ritorta contro di me. Anche perchè lui rincarò la dose “Lo sai bene che l'esoterismo e la stregoneria sono quanto di più condannabile esista in città, i Domenicani possono rovinarci in due e due quattro”. Non potevo certo dargli torto, cedetti immediatamente al suo richiamo e non frequentai più quei corsi, ma conservai di nascosto e dentro di me, sia gli appunti che le conoscenze acquisite. Maturai inoltre in quel tempo una convinzione che mai è vacillata in me da quel momento in poi “Le vere streghe sono cinque: il pregiudizio, la menzogna, l'ignoranza, la maldicenza e l'invidia”. Mi chiusi poi per un lungo periodo lì nel Torresotto e quando rimanevo sola libera da incombenze, salivo su nel granaio. Mi sedevo lì vicino allo spioncino che guardava la piazza e la chiesa di S. Francesco ed era  un piacere stupendo godermi da lì i raggi di sole che filtravano ed i colori del tramonto. Ripresi poi i miei appunti e meditai su quanto avevo appreso dalle lezioni del Manfredi. Un pomeriggio poi fui colpita da un uomo anziano che con passo claudicante ed uno sportone nella mano destra, da cui sporgevano delle verdi piantine. Con passo lento e compassato attraversò la piazza ed entrò in chiesa da una porta laterale. Lì per lì subito lo notai e mi chiesi “che ci fa in chiesa quel vecchio del contado con quel fardello?”. Qualche istante dopo lo vidi uscire e le piantine erano sparite, nella sua mano destra non restava che lo sportone. Siccome la scena si ripropose nei venerdì seguenti, la mia curiosità si scatenò. Ormai avevo capito che lui veniva in città il venerdì a metà pomeriggio e questa volta anch'io scesi in piazza approfittando dell'assenza di occhi curiosi, lo seguii ed osai entrando dopo di lui. Aggirò l'altare maggiore e fece per salire la scala verso la canonica. Intanto una figura imponente apparve dalla seconda rampa di scale e gli si fece incontro. “Oh siete voi, frate Silvestro...”, esclamò l'uomo. Io per non essere notata, pronta mi inginocchiai lì sulla prima panca e fingendo di pregare, assistetti a tutta la scena. Il frate un uomo dall'aspetto affascinante, scuro di capelli e dalla folta barba nera, lo salutò brevemente e gli chiese “Mi hai portato la ruta e la verbena, i miei alambicchi attendono solo l'arrivo di queste ultime due erbe....”, l'uomo aprì lo sportone e senza profferir parola gli consegnò tutto il contenuto e salirono le scale. Io non intesi altro ma quella parola “alambicchi” pronunciata da Frate Silvestro, accese la mia fantasia. Alchimia, erbe medicinali. Di certo lui si occupava di questo ed era lì a due passi, da casa mia, non mi sarei certo fatto sfuggire l'occasione. Cominciai a frequentare con assiduità la chiesa di S. Francesco ed il giorno da me sospirato arrivò. A turno i frati tutti al di là delle loro mansioni giornaliere, dovevano periodicamente prestare servizio al Confessionale. Confidai a lui le mie difficoltà passate e la grande sete per la conoscenza che mi animava. Con un filo di malizia aggiunsi “Certo i miei studi presso il Manfredi si sono interrotti sul più bello, le esperienze pratiche sulle erbe officinali....”. Non terminai neppure la frase che lui intervenne “Mia cara, siete una donna veramente fortunata, io vi assolvo e dopo la doverosa penitenza che vi assegno e che reciteremo assieme, vi mostrerò il mio laboratorio. Se vorrete apprendere l'arte erboristica, vi dico che sono alla ricerca di un aiuto e sarò molto contento di mettervi a conoscenza delle mie esperienze in campo medico”. Andò proprio così ed io con  Frate Silvestro ed i suoi alambicchi facemmo squadra. Mio marito come sempre era sommerso di lavoro e vedeva di buon occhio la mia nuova frequentazione ecclesiastica, anche e soprattutto perchè le chiacchiere del vicinato si attenuarono. Imparai in fretta la proprietà di tutte quelle erbe curative e cosa ancor più importante, dopo il breve apprendistato frate Silvestro, mi introdusse nell'infermeria Francescana. Io lo assistevo ascoltavo e ci consultavamo per fare diagnosi e consigliar rimedi, la mia formazione ed i miei studi precedenti mi consentirono inoltre di superarlo presto. Lui era mite e capiva e non mi ostacolò mai, anzi mi incoraggiava ed io ebbi sempre grande rispetto nei suoi confronti. Tanti Bolognesi venivano da noi, dapprima soprattutto poveri, ma con il passar del tempo, anche dalle classi agiate si presentarono a noi per chieder pozioni e consigli. Alessandro Cimieri Notaro mio marito non pareva più quello di prima, visto che anche i notabili della città si presentavano all'infermeria, cominciò ad apprezzare la mia attività erboristica. Poi l'improvvisa scomparsa di frate Silvestro, lui che aveva speso la vita per curare gli altri, non si era mai preso troppa cura di se stesso. Ora io non avevo più accesso all'infermeria Francescana,  altri quattro frati che si occupavano assieme a frate Silvestro dell'erboristeria,  mai mi avevano visto di buon occhio e colsero lesti l'occasione per sbattermi fuori. Ma la voce si era sparsa in città e molti bussarono al Torresotto di Portanova presso la nostra abitazione, reclamando i miei servizi. Una mattina bussò addirittura alla nostra porta Zenobia Aldrovandi, la governante della Principessa Ginevra Sforza, maritata ora con Giovanni II Bentivoglio. Quando la nostra serva aprì in presenza di mio marito, Zenobia chiese di me e dopo essersi presentata “La Principessa ha un grave problema il piccolo Ermes, il penultimo dei sedici figli che ha dato a Messer Giovanni è in preda a forti febbri ormai da una settimana. Lei teme possa fare la fine dei cinque che ha già perso in passato. Chiede perciò che vostra moglie venga a palazzo a vederlo”. Io ero al mercato delle Erbe ed Alessandro mandò la serva a cercarmi, pregandomi di raggiungere immediatamente Palazzo Bentivoglio. Passai al Torresotto, salii al granaio e presi la boccetta con il preparato diaforetico. Poi quasi di corsa, mi diressi in strada S.Donato, quella era la mia grande occasione. Arrivai alla cancellata del grande edificio, il più maestoso e di gran lunga il più bello della città, iniziato da più di dieci anni, ma non ancora terminato. Venni riconosciuta, mi fu aperto. Zenobia si fece incontro e mi condusse attraverso lo scalone in travertino all'interno dell'edificio. Nell'androne su di un ponteggio, erano arrampicati tre uomini che affrescavano le pareti. Uno lo riconobbi immediatamente era Lorenzo Costa, colui che già aveva dipinto il ritratto di Giovanni II ed anche la famiglia Bentivoglio tutta,  lì vicino in S.Giacomo. Salimmo anche questa ulteriore rampa di scale, accedendo ad una grande sala completamente affrescata. Di fronte, in fondo alla sala un grande camino con il fuoco acceso, attorno a poca distanza una sorta di grande panca, ricoperta da morbidi cuscini damascati. Zenobia mi fece accomodare lì, pregandomi di aspettare. Mi sedetti, osservai le pareti laterali, mentre lei si infilò nella prima delle quattro porte presenti sulla parete alla mia destra. Già dal basso erano dipinti, una serie di scene allegoriche riguardanti la famiglia, dalle sue origini ai tempi più recenti, poi man mano verso l'alto storie di Santi e la vita di Gesu', la Passione e la sua Resurrezione. La volta ed il soffitto, affreschi allegorici legati al Vecchio Testamento, fino alla creazione, ed una grande luce, avvolgente la figura centrale di Dio. Una vera meraviglia, nella mia vita mai avevo visto nulla di simile. Ero ancora  con il naso all'insù, quando si riaprì la porta ed accanto a Zenobia apparve colei che tutti ormai da molti anni vedevamo come la “Regina della città”, Ginevra Sforza. In prime nozze aveva sposato il vecchio cugino di Giovanni II, Sante Bentivoglio. Certo un matrimonio di puro interesse, per legare le due famiglie gli Sforza signori di Pesaro ed appunto i Bentivoglio ormai signori incontrastati della città Felsinea. In città correva voce che già dai primi tempi del matrimonio con Sante, lei se la intendesse con Giovanni II, di lei più giovane di tre anni. Infatti poco prima della morte di Sante, erano nati due figli, che secondo i maligni erano frutto di quel rapporto fraudolento. Ma lei era scaltra e già con il primo marito, ebbe una grande influenza su di lui nella gestione del potere familiare. Sposando il più giovane Giovanni prese “due piccioni con una sola fava” , legalizzando completamente quell'amore nascosto e salendo ancor più in sella nella gestione familiare. Viste le circostanze le presentazioni furono sbrigative e Zenobia, ci lasciò sole. Ginevra mi manifestò la sua preoccupazione per la salute di Ermes. Io non esitai e giocandomi appieno la mia carta “Madonna, vi chiedo di vedere il piccolo Ermes e intanto fate scaldare dell'acqua e preparate delle pezze di lino”. Così avvenne io versai venti gocce della pozione diaforetica in un bicchiere ed aggiunsi acqua calda. Spiegai a Ginevra che la mistura era a base di menta ed eucaliptolo con aggiunta di chiodi di garofano e miele di acacia, aveva la funzione di aprire le vie respiratorie del piccolo Ermes. Mentre le pezze di lino opportunamente imbevute nell'acqua ormai quasi bollente, dovevano essere posizionate rispettivamente sulla fronte, sui polsi e sulle caviglie del piccolo. Avrebbero dovuto ripetere l'operazione almeno quattro volte fino all'indomani ad intervalli regolari. Io sarei ripassata il giorno successivo, per constare se la febbre avesse cominciato a calare. Così fu, quando ritornai, trovai Ermes quasi sfebbrato, la sua tosse molto secca ed insistente il giorno precedente, era ora più blanda ed ammorbidita dalla pozione. Lessi negli occhi di Ginevra, una vena di commozione e ringraziamento, che subito mitigò. Io capii che il ghiaccio era rotto, lei mi chiese “Mia cara Gentile, come posso sdebitarmi con voi?”.

-Principessa è stato un vero onore per me poter esser utile, con le mie erbe, alla salute del piccolo Emes.

-Io e mio marito ve ne saremo grati. Intanto fate sapere a vostro marito che collabora con noi saltuariamente, che d'ora in poi molte faccende legali e sotto l'aspetto notarile legate alla nostra famiglia, gli saranno affidate. Per quanto riguarda voi, mia cara Gentile, io avrei piacere di ragionare attorno a questioni di astrologia, in cui sono certa siate molto addentrata.

Da quel giorno io presi a frequentare assiduamente Palazzo Bentivoglio e Ginevra. Mio marito, non poneva più alcun ostacolo, visto che i suoi affari grazie a quell'episodio lievitarono ulteriormente. I Francescani però, dai quali mi ero staccata completamente dopo la morte del mio protettore Frate Silvestro, diventarono sempre più velenosi nei miei confronti. Non digerivano il fatto che al Torresotto di Portanova, lì a due passi da loro, ci fosse la fila di gente che voleva incontrarmi e ritenevano avessi rubato loro il mestiere. Come  una volgare femmina venni marchiata, visto che venivo quasi idolatrata, dopo l'episodio della guarigione del piccolo Ermes. Ginevra mi invitava continuamente a palazzo e questo era per me il salvacondotto, anche contro le maldicenze dei Francescani.

Le cose si erano messe al meglio, Ginevra mi ricopriva di beni e di attenzioni, mi trattava come la sua consigliera di fiducia. Stava chiusa nello splendore della sua casa, rifuggendo dal contatto della vita cittadina. In particolare aveva accentuato questo suo comportamento dopo la congiura dei Malvezzi quegli eventi della fine novembre del '88, l'avevano resa ancor più acida. Lì a palazzo, consumava se stessa e la sua anima nei dubbi e nei sospetti verso altre famiglie della città, che  vedeva come piene di invidia rispetto a Giovanni II ed a lei. Io comprendevo perfettamente, il suo stato e anziché incoraggiarla a riprendere fiducia nel suo prossimo. Sicuramente per egoismo, non la spinsi mai a riprendersi, la visibilità e gli onori da parte di una città che assai meschina era salita ormai tutta sul “carro Bentivolesco”. Passarono in tal modo diversi anni ed io ero sempre più intima di Ginevra e lei sempre più superstiziosa. Proprio in quel tempo si presentò una mattina al Torresotto di Portanova chiedendo di me un tal Ubaldo Aldobrandini. Io non c'ero lui lasciò questa ambasciata per me”dite alla vostra padrona, che ripasserò domani a quest'ora, vengo da parte di Galeazzo Marescotti ed il mio signore ha bisogno dei suoi servigi”. Quando la serva me lo disse, passai tutta sera e la notte a rimuginare su quella visita. Io sapevo bene chi era il vecchio Galeazzo Marescotti. Si era salvato, dopo la congiura, sol  fuggendo precipitosamente da Bologna, diversi anni prima. Lui aveva tramato con i Malvezzi per abbattere lo strapotere dei Bentivoglio in città. Quindi ero turbata, di sicuro loro sapevano che frequentavo Palazzo Bentivoglio e del legame che avevo con Ginevra. Difatti l'uomo si presentò puntualmente all'indomani. Io lo ricevetti nello studiolo di servizio di mio marito Alessandro, ed ebbi la conferma dei miei sospetti. “Il mio signore è lontano, ma mi incarica di portarvi questa missiva, vista la vostra influenza presso la Madonna Ginevra. Lui vi chiede di farmi avere la vostra risposta per iscritto entro una settimana, giusto il tempo che io mi fermo qui, presso il Legato Pontificio”. Mi disse anche che si trattava di una faccenda assai riservata, visto che c'era di mezzo la figura del nuovo Papa Alessandro VI. Congedai quindi l'Aldobrandini, con la promessa che ci saremmo rivisti la settimana successiva. Quindi lessi la lettera, scritta di pugno dal Marescotti:

 

Mia cara,

La vostra fama e gli effetti stupefacenti delle vostre erbe, che hanno quasi del miracoloso sono giunte anche qui a Roma. Come voi certamente sapete, io da alcuni anni sono dovuto riparare qui, dopo la triste ed inquietante vicenda che ha coinvolto anche la mia famiglia. Ma io e mio fratello sempre rimpiangiamo la nostra Bologna e nonostante ciò che abbiamo subito, io la perdita della mia cara moglie e mio fratello la perdita del figlio maggiore per mano dei sicari Bentivoleschi, siamo pronti al perdono. Ora anche Papa AlessandroVI, di cui noi ora siamo fedeli servitori, desidera che il perdono ritorni come forza sovrana a regnare in città. Il Pontefice si farebbe volentieri garante in prima persona di questa operazione, ma il suo ministero gli impedisce di agire direttamente. Lui ritiene perciò che il primo passo spetti a Messer Giovanni Bentivoglio. Si presenti perciò al soglio Pontificio con moglie e figli e qui l'operazione si potrà finalmente compiere ed a Bologna ritornerà la concordia del tempo perduto. Vi chiedo pertanto, mia cara, di intercedere presso Madonna Ginevra, perché sappiamo bene della  influenza che ella da molto tempo vanta sugli affari del marito.

Seguivano i convenevoli di rito ed un ulteriore accenno alla mia attività di erborista “la quale non dovrebbe mai sfociare in qualcosa di satanico”, una sfumatura che mi creo' un lungo brivido di paura e smarrimento. Più  riflettevo su queste parole, comprendevo che mi ero cacciata, proprio in un grande pasticcio proprio al centro del loro ricatto.  Pensavano che io avessi Ginevra in pugno, avere la sua completa fiducia equivaleva condizionare anche le scelte di Giovanni. Davvero non sapevo che fare, se avessi forzato Ginevra, lei si sarebbe insospettita immediatamente. Ma non avevo scelta e l'indomani, a Palazzo Bentivoglio, informai Ginevra. “Vigliacchi, Io, Giovanni ed i miei figli, non andremo mai a Roma, dopo la congiura, il Marescotti ed i suoi compari, hanno continuato a tramare  contro di noi. Si sono ingraziati Papa Alessandro, che non vede l'ora, dopo che ha piazzato Lucrezia a Ferrara, di insediare il Valentino a Bologna. Riguardo a voi Gentile, se avete a cuore l'amicizia che ci lega, non vi immischiate in questa faccenda”. Non replicai, conoscevo ormai troppo bene Ginevra, per forzarla ulteriormente.

Non passarono che poche settimane dal diniego a cui fui costretta nei confronti del Marescotti, che ricevetti al Torresotto l'irruzione dell'Inquisizione. Bussarono all'alba ed entrarono con la forza nel mio laboratorio mettendolo sottosopra, mi dissero di aver trovato prove inconfutabili. “maledetta strega, ora avrai pane per i tuoi denti aguzzi”.

Ginevra avrebbe comunque potuto intercedere a mio favore attraverso gli emissari Bentivoleschi a Roma, in quei giorni, ma non lo fece.

 Ora  qui, su questa pira, dopo torture e violenze indicibilili li ho accontetati ho confessato anche ciò che non ho mai fatto, tra cui l'unione carnale con il demonio, almeno mi hanno risparmiato ulteriori sofferenze ed umiliazioni. Mentre finalmente il boia accende la fiaccola e la depone sotto le fascine, l'ultimo pensiero è per Ginevra “pure la tua fine non è lontana”.

Le fiamme ora sono alte ed avvolgono completamente Gentile, che se ne va senza un lamento,perché il cappio appeso al collo ha fatto un buon lavoro. Li vicino a palazzo Bentivoglio, dietro la vetrata del terzo piano Ginevra piange a dirotto. La sua amica ora non c'è più e lei non ha potuto fare nulla, ma piange soprattutto perché ha capito che a Bologna per i Bentivoglio ormai non c'è più futuro.

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