LA STREGA ENORMISSIMA
Il rogo è pronto, la
piazza di S. Domenico comincia a popolarsi, fa già un gran caldo questa
mattina, è il 14 luglio 1498 e sul quel rogo, ci salirò io Gentile Budrioli.
Siate tutti maledetti, soprattutto tu Ginevra che non hai esitato a voltarmi le
spalle. Forza cosa aspetti porco di un boia ad attizzare quel falò, sappilo io non ho certo nessuna paura, dopo
quello che mi avete fatto patire nei giorni scorsi. Mentre grido, mi cosparge
di pece e prepara anche il cappio da appendermi al collo lui dice: “E' per farmi soffrire di meno, una grande
intercessione dell'inquisizione nei tuoi confronti, fosse per me ti brucerei a
fuoco lento”. Ancora non vuole darmi la soddisfazione di salire ed accendere la
pira, aspetta che la piazza si riempia e tutti possano assistere.
“Puttana di una
strega devi avere il tempo di riflettere ancora un po’ sulle tue
malefatte, risponde alle mie
imprecazioni quel ribaldo mascherato”.
In un attimo rivivo
tutta la mia vicenda.
Mi ero da poco maritata con Alessandro, io di nobile famiglia, lui
notaro di gran nome, i Cimieri esercitavano lì al Torresotto di Portanova
presso Piazza S.Francesco. Lui pieno di impegni per il suo ufficio, mi
trascurava. Io ero assetata di conoscenza, avevo un debole per l'astrologia e
le nuove scienze pure se osteggiate dalla chiesa ed una gran voglia di vivere.
Mi sentivo stretta tra quelle quattro mura, Alessandro non faceva altro che
farmi fare un figlio dopo l'altro e solo di questo secondo lui mi sarei dovuta
occupare. In quel periodo seppi che all'Università Scipione Manfredi, teneva
conferenze su quelle nuove tematiche. Mio marito era talmente occupato nelle
sue faccende, che in un primo tempo neppure si accorse che io avevo preso a
frequentare quelle lezioni. Ma una donna venne presto notata in quel contesto.
Ed un giorno a pranzo “Mentre io sgobbo da mane a sera, tu ti trastulli
prigioniera dell'oratoria di quel pianta balle, arrivato all'università. Mi
meraviglio come l'Alma Mater abbia potuto arruolare tra le sue fila, un
cialtrone del genere e tu nobildonna mia moglie, là a pendere dalle sue labbra,
anziché qui ad accudire i tuoi figli”. Io non potei neanche replicare, sarebbe
stato inutile, ogni cosa avessi detto si sarebbe ritorta contro di me. Anche
perchè lui rincarò la dose “Lo sai bene che l'esoterismo e la stregoneria sono
quanto di più condannabile esista in città, i Domenicani possono rovinarci in
due e due quattro”. Non potevo certo dargli torto, cedetti immediatamente al
suo richiamo e non frequentai più quei corsi, ma conservai di nascosto e dentro
di me, sia gli appunti che le conoscenze acquisite. Maturai inoltre in quel
tempo una convinzione che mai è vacillata in me da quel momento in poi “Le vere
streghe sono cinque: il pregiudizio, la menzogna, l'ignoranza, la maldicenza e
l'invidia”. Mi chiusi poi per un lungo periodo lì nel Torresotto e quando
rimanevo sola libera da incombenze, salivo su nel granaio. Mi sedevo lì vicino
allo spioncino che guardava la piazza e la chiesa di S. Francesco ed era un piacere stupendo godermi da lì i raggi di
sole che filtravano ed i colori del tramonto. Ripresi poi i miei appunti e meditai
su quanto avevo appreso dalle lezioni del Manfredi. Un pomeriggio poi fui
colpita da un uomo anziano che con passo claudicante ed uno sportone nella mano
destra, da cui sporgevano delle verdi piantine. Con passo lento e compassato
attraversò la piazza ed entrò in chiesa da una porta laterale. Lì per lì subito
lo notai e mi chiesi “che ci fa in chiesa quel vecchio del contado con quel
fardello?”. Qualche istante dopo lo vidi uscire e le piantine erano sparite,
nella sua mano destra non restava che lo sportone. Siccome la scena si ripropose nei venerdì
seguenti, la mia curiosità si scatenò. Ormai avevo capito che lui veniva in
città il venerdì a metà pomeriggio e questa volta anch'io scesi in piazza
approfittando dell'assenza di occhi curiosi, lo seguii ed osai entrando dopo di
lui. Aggirò l'altare maggiore e fece per salire la scala verso la canonica.
Intanto una figura imponente apparve dalla seconda rampa di scale e gli si fece
incontro. “Oh siete voi, frate Silvestro...”, esclamò l'uomo. Io per non essere
notata, pronta mi inginocchiai lì sulla prima panca e fingendo di pregare,
assistetti a tutta la scena. Il frate un uomo dall'aspetto affascinante, scuro
di capelli e dalla folta barba nera, lo salutò brevemente e gli chiese “Mi hai
portato la ruta e la verbena, i miei alambicchi attendono solo l'arrivo di
queste ultime due erbe....”, l'uomo aprì lo sportone e senza profferir parola
gli consegnò tutto il contenuto e salirono le scale. Io non intesi altro ma
quella parola “alambicchi” pronunciata da Frate Silvestro, accese la mia
fantasia. Alchimia, erbe medicinali. Di certo lui si occupava di questo ed era
lì a due passi, da casa mia, non mi sarei certo fatto sfuggire l'occasione. Cominciai a frequentare con assiduità la chiesa
di S. Francesco ed il giorno da me sospirato arrivò. A turno i frati tutti al
di là delle loro mansioni giornaliere, dovevano periodicamente prestare
servizio al Confessionale. Confidai a lui le mie difficoltà passate e la grande
sete per la conoscenza che mi animava. Con un filo di malizia aggiunsi “Certo i
miei studi presso il Manfredi si sono interrotti sul più bello, le esperienze
pratiche sulle erbe officinali....”. Non terminai neppure la frase che lui
intervenne “Mia cara, siete una donna veramente fortunata, io vi assolvo e dopo
la doverosa penitenza che vi assegno e che reciteremo assieme, vi mostrerò il
mio laboratorio. Se vorrete apprendere l'arte erboristica, vi dico che sono
alla ricerca di un aiuto e sarò molto contento di mettervi a conoscenza delle
mie esperienze in campo medico”. Andò proprio così ed io con Frate Silvestro ed i suoi alambicchi facemmo
squadra. Mio marito come sempre era sommerso di lavoro e vedeva di buon occhio
la mia nuova frequentazione ecclesiastica, anche e soprattutto perchè le
chiacchiere del vicinato si attenuarono. Imparai in fretta la proprietà di
tutte quelle erbe curative e cosa ancor più importante, dopo il breve
apprendistato frate Silvestro, mi introdusse nell'infermeria Francescana. Io lo
assistevo ascoltavo e ci consultavamo per fare diagnosi e consigliar rimedi, la
mia formazione ed i miei studi precedenti mi consentirono inoltre di superarlo
presto. Lui era mite e capiva e non mi ostacolò mai, anzi mi incoraggiava ed io
ebbi sempre grande rispetto nei suoi confronti. Tanti Bolognesi venivano da
noi, dapprima soprattutto poveri, ma con il passar del tempo, anche dalle
classi agiate si presentarono a noi per chieder pozioni e consigli. Alessandro
Cimieri Notaro mio marito non pareva più quello di prima, visto che anche i
notabili della città si presentavano all'infermeria, cominciò ad apprezzare la
mia attività erboristica. Poi l'improvvisa scomparsa di frate Silvestro, lui
che aveva speso la vita per curare gli altri, non si era mai preso troppa cura
di se stesso. Ora io non avevo più accesso all'infermeria Francescana, altri quattro frati che si occupavano assieme
a frate Silvestro dell'erboristeria, mai
mi avevano visto di buon occhio e colsero lesti l'occasione per sbattermi
fuori. Ma la voce si era sparsa in città e molti bussarono al Torresotto di
Portanova presso la nostra abitazione, reclamando i miei servizi. Una mattina
bussò addirittura alla nostra porta Zenobia Aldrovandi, la governante della
Principessa Ginevra Sforza, maritata ora con Giovanni II Bentivoglio. Quando
la nostra serva aprì in presenza di mio marito, Zenobia chiese di me e dopo
essersi presentata “La Principessa ha un grave problema il piccolo Ermes, il
penultimo dei sedici figli che ha dato a Messer Giovanni è in preda a forti
febbri ormai da una settimana. Lei teme possa fare la fine dei cinque che ha
già perso in passato. Chiede perciò che vostra moglie venga a palazzo a
vederlo”. Io ero al mercato delle Erbe ed Alessandro mandò la serva a cercarmi,
pregandomi di raggiungere immediatamente Palazzo Bentivoglio. Passai al
Torresotto, salii al granaio e presi la boccetta con il preparato diaforetico.
Poi quasi di corsa, mi diressi in strada S.Donato, quella era la mia grande
occasione. Arrivai alla cancellata del grande edificio, il più maestoso e di
gran lunga il più bello della città, iniziato da più di dieci anni, ma non
ancora terminato. Venni riconosciuta, mi fu aperto. Zenobia si fece incontro e
mi condusse attraverso lo scalone in travertino all'interno dell'edificio.
Nell'androne su di un ponteggio, erano arrampicati tre uomini che affrescavano
le pareti. Uno lo riconobbi immediatamente era Lorenzo Costa, colui che già
aveva dipinto il ritratto di Giovanni II ed anche la famiglia Bentivoglio
tutta, lì vicino in S.Giacomo. Salimmo
anche questa ulteriore rampa di scale, accedendo ad una grande sala
completamente affrescata. Di fronte, in fondo alla sala un grande camino con il
fuoco acceso, attorno a poca distanza una sorta di grande panca, ricoperta da
morbidi cuscini damascati. Zenobia mi fece accomodare lì, pregandomi di
aspettare. Mi sedetti, osservai le pareti laterali, mentre lei si infilò nella
prima delle quattro porte presenti sulla parete alla mia destra. Già dal basso
erano dipinti, una serie di scene allegoriche riguardanti la famiglia, dalle
sue origini ai tempi più recenti, poi man mano verso l'alto storie di Santi e
la vita di Gesu', la Passione e la sua Resurrezione. La volta ed il soffitto,
affreschi allegorici legati al Vecchio Testamento, fino alla creazione, ed una
grande luce, avvolgente la figura centrale di Dio. Una vera meraviglia, nella
mia vita mai avevo visto nulla di simile. Ero ancora con il naso all'insù, quando si riaprì la
porta ed accanto a Zenobia apparve colei che tutti ormai da molti anni vedevamo
come la “Regina della città”, Ginevra Sforza. In prime nozze aveva sposato il
vecchio cugino di Giovanni II, Sante Bentivoglio. Certo un matrimonio di puro
interesse, per legare le due famiglie gli Sforza signori di Pesaro ed appunto i
Bentivoglio ormai signori incontrastati della città Felsinea. In città correva
voce che già dai primi tempi del matrimonio con Sante, lei se la intendesse con
Giovanni II, di lei più giovane di tre anni. Infatti poco prima della morte di
Sante, erano nati due figli, che secondo i maligni erano frutto di quel
rapporto fraudolento. Ma lei era scaltra e già con il primo marito, ebbe una
grande influenza su di lui nella gestione del potere familiare. Sposando il più
giovane Giovanni prese “due piccioni con una sola fava” , legalizzando
completamente quell'amore nascosto e salendo ancor più in sella nella gestione
familiare. Viste le circostanze le presentazioni furono sbrigative e Zenobia,
ci lasciò sole. Ginevra mi manifestò la sua preoccupazione per la salute di
Ermes. Io non esitai e giocandomi appieno la mia carta “Madonna, vi chiedo di
vedere il piccolo Ermes e intanto fate scaldare dell'acqua e preparate delle
pezze di lino”. Così avvenne io versai venti gocce della pozione diaforetica in
un bicchiere ed aggiunsi acqua calda. Spiegai a Ginevra che la mistura era a
base di menta ed eucaliptolo con aggiunta di chiodi di garofano e miele di
acacia, aveva la funzione di aprire le vie respiratorie del piccolo Ermes.
Mentre le pezze di lino opportunamente imbevute nell'acqua ormai quasi
bollente, dovevano essere posizionate rispettivamente sulla fronte, sui polsi e
sulle caviglie del piccolo. Avrebbero dovuto ripetere l'operazione almeno
quattro volte fino all'indomani ad intervalli regolari. Io sarei ripassata il
giorno successivo, per constare se la febbre avesse cominciato a calare. Così
fu, quando ritornai, trovai Ermes quasi sfebbrato, la sua tosse molto secca ed
insistente il giorno precedente, era ora più blanda ed ammorbidita dalla
pozione. Lessi negli occhi di Ginevra, una vena di commozione e ringraziamento,
che subito mitigò. Io capii che il ghiaccio era rotto, lei mi chiese “Mia cara
Gentile, come posso sdebitarmi con voi?”.
-Principessa è stato
un vero onore per me poter esser utile, con le mie erbe, alla salute del
piccolo Emes.
-Io e mio marito ve
ne saremo grati. Intanto fate sapere a vostro marito che collabora con noi
saltuariamente, che d'ora in poi molte faccende legali e sotto l'aspetto
notarile legate alla nostra famiglia, gli saranno affidate. Per quanto riguarda
voi, mia cara Gentile, io avrei piacere di ragionare attorno a questioni di
astrologia, in cui sono certa siate molto addentrata.
Da quel giorno io
presi a frequentare assiduamente Palazzo Bentivoglio e Ginevra. Mio marito, non
poneva più alcun ostacolo, visto che i suoi affari grazie a quell'episodio
lievitarono ulteriormente. I Francescani però, dai quali mi ero staccata
completamente dopo la morte del mio protettore Frate Silvestro, diventarono
sempre più velenosi nei miei confronti. Non digerivano il fatto che al
Torresotto di Portanova, lì a due passi da loro, ci fosse la fila di gente che
voleva incontrarmi e ritenevano avessi rubato loro il mestiere. Come una volgare femmina venni marchiata, visto
che venivo quasi idolatrata, dopo l'episodio della guarigione del piccolo
Ermes. Ginevra mi invitava continuamente a palazzo e questo era per me il
salvacondotto, anche contro le maldicenze dei Francescani.
Le cose si erano
messe al meglio, Ginevra mi ricopriva di beni e di attenzioni, mi trattava come
la sua consigliera di fiducia. Stava chiusa nello splendore della sua casa,
rifuggendo dal contatto della vita cittadina. In particolare aveva accentuato
questo suo comportamento dopo la congiura dei Malvezzi quegli eventi della fine
novembre del '88, l'avevano resa ancor più acida. Lì a palazzo, consumava se
stessa e la sua anima nei dubbi e nei sospetti verso altre famiglie della
città, che vedeva come piene di invidia
rispetto a Giovanni II ed a lei. Io comprendevo perfettamente, il suo stato e
anziché incoraggiarla a riprendere fiducia nel suo prossimo. Sicuramente per
egoismo, non la spinsi mai a riprendersi, la visibilità e gli onori da parte di
una città che assai meschina era salita ormai tutta sul “carro Bentivolesco”.
Passarono in tal modo diversi anni ed io ero sempre più intima di Ginevra e lei
sempre più superstiziosa. Proprio in quel tempo si presentò una mattina al
Torresotto di Portanova chiedendo di me un tal Ubaldo Aldobrandini. Io non
c'ero lui lasciò questa ambasciata per me”dite alla vostra padrona, che
ripasserò domani a quest'ora, vengo da parte di Galeazzo Marescotti ed il mio
signore ha bisogno dei suoi servigi”. Quando la serva me lo disse, passai tutta
sera e la notte a rimuginare su quella visita. Io sapevo bene chi era il
vecchio Galeazzo Marescotti. Si era salvato, dopo la congiura, sol fuggendo precipitosamente da Bologna, diversi
anni prima. Lui aveva tramato con i Malvezzi per abbattere lo strapotere dei
Bentivoglio in città. Quindi ero turbata, di
sicuro loro sapevano che frequentavo Palazzo Bentivoglio e del legame che avevo
con Ginevra. Difatti l'uomo si presentò puntualmente all'indomani. Io lo
ricevetti nello studiolo di servizio di mio marito Alessandro, ed ebbi la
conferma dei miei sospetti. “Il mio signore è lontano, ma mi incarica di
portarvi questa missiva, vista la vostra influenza presso la Madonna Ginevra.
Lui vi chiede di farmi avere la vostra risposta per iscritto entro una
settimana, giusto il tempo che io mi fermo qui, presso il Legato Pontificio”.
Mi disse anche che si trattava di una faccenda assai riservata, visto che c'era
di mezzo la figura del nuovo Papa Alessandro VI. Congedai quindi
l'Aldobrandini, con la promessa che ci saremmo rivisti la settimana successiva.
Quindi lessi la lettera, scritta di pugno dal Marescotti:
Mia cara,
La vostra fama e gli effetti stupefacenti delle
vostre erbe, che hanno quasi del miracoloso sono giunte anche qui a Roma. Come
voi certamente sapete, io da alcuni anni sono dovuto riparare qui, dopo la
triste ed inquietante vicenda che ha coinvolto anche la mia famiglia. Ma io e
mio fratello sempre rimpiangiamo la nostra Bologna e nonostante ciò che abbiamo
subito, io la perdita della mia cara moglie e mio fratello la perdita del
figlio maggiore per mano dei sicari Bentivoleschi, siamo pronti al perdono. Ora
anche Papa AlessandroVI, di cui noi ora siamo fedeli servitori, desidera che il
perdono ritorni come forza sovrana a regnare in città. Il Pontefice si farebbe
volentieri garante in prima persona di questa operazione, ma il suo ministero
gli impedisce di agire direttamente. Lui ritiene perciò che il primo passo
spetti a Messer Giovanni Bentivoglio. Si presenti perciò al soglio Pontificio
con moglie e figli e qui l'operazione si potrà finalmente compiere ed a Bologna
ritornerà la concordia del tempo perduto. Vi chiedo pertanto, mia cara, di
intercedere presso Madonna Ginevra, perché sappiamo bene della influenza che ella da molto tempo vanta sugli
affari del marito.
Seguivano i convenevoli di rito ed un ulteriore
accenno alla mia attività di erborista “la quale non dovrebbe mai sfociare in
qualcosa di satanico”, una sfumatura che mi creo' un lungo brivido di paura e
smarrimento. Più riflettevo su queste parole, comprendevo che
mi ero cacciata, proprio in un grande pasticcio proprio al centro del loro
ricatto. Pensavano che io avessi Ginevra
in pugno, avere la sua completa fiducia equivaleva condizionare anche le scelte
di Giovanni. Davvero non sapevo che fare, se avessi forzato Ginevra, lei si
sarebbe insospettita immediatamente. Ma non avevo scelta e l'indomani, a
Palazzo Bentivoglio, informai Ginevra. “Vigliacchi, Io, Giovanni ed i miei
figli, non andremo mai a Roma, dopo la congiura, il Marescotti ed i suoi
compari, hanno continuato a tramare
contro di noi. Si sono ingraziati Papa Alessandro, che non vede l'ora,
dopo che ha piazzato Lucrezia a Ferrara, di insediare il Valentino a Bologna.
Riguardo a voi Gentile, se avete a cuore l'amicizia che ci lega, non vi
immischiate in questa faccenda”. Non replicai, conoscevo ormai troppo bene
Ginevra, per forzarla ulteriormente.
Non passarono che
poche settimane dal diniego a cui fui costretta nei confronti del Marescotti,
che ricevetti al Torresotto l'irruzione dell'Inquisizione. Bussarono all'alba
ed entrarono con la forza nel mio laboratorio mettendolo sottosopra, mi dissero
di aver trovato prove inconfutabili. “maledetta strega, ora avrai pane per i
tuoi denti aguzzi”.
Ginevra avrebbe
comunque potuto intercedere a mio favore attraverso gli emissari Bentivoleschi
a Roma, in quei giorni, ma non lo fece.
Ora
qui, su questa pira, dopo torture e violenze indicibilili li ho
accontetati ho confessato anche ciò che non ho mai fatto, tra cui l'unione
carnale con il demonio, almeno mi hanno risparmiato ulteriori sofferenze ed
umiliazioni. Mentre finalmente il boia accende la fiaccola e la depone sotto le
fascine, l'ultimo pensiero è per Ginevra “pure la tua fine non è lontana”.
Le fiamme ora sono
alte ed avvolgono completamente Gentile, che se ne va senza un lamento,perché
il cappio appeso al collo ha fatto un buon lavoro. Li vicino a palazzo Bentivoglio, dietro la vetrata del terzo piano
Ginevra piange a dirotto. La sua amica ora non c'è più e lei non ha potuto fare
nulla, ma piange soprattutto perché ha capito che a Bologna per i Bentivoglio
ormai non c'è più futuro.
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