martedì 27 dicembre 2022

 

SULLE TRACCE DI ENZO E ADELASIA


Che tristezza qui al Castello di Burgos, mi cullo ormai nei rimpianti. Sono per tutti la Giudicessa di Torres. Ma in realtà sono l'ostaggio, di Michele Zanche, il mio terzo marito. Lui l'ex maniscalco, si è sostituito al mio grande amore. Enzo, il mio secondo marito, che però ben presto si stancò di me, abbandonandomi al mio destino, buttandomi tra le braccia di questo malefico zoppo. Enzo lo conobbi che era diciottenne. Alto, bello, dai lunghi capelli biondi e quegli occhi azzurri. Figlio naturale dell'imperatore Federico II e della sua concubina. In poco tempo avevo perso, padre e fratello. Pure mia madre dopo la morte di mio fratello era tornata a Karalis dalla sua famiglia di origine e non era più ritornata. Ero rimasta progressivamente sola, intorno a me si era fatto il vuoto. La mancanza di maschi appartenenti alla mia progenie, fece cadere su di me l'impegno di prendere le redini del Giudicato di Torres. Ma andiamo per ordine:


Tutto iniziò quando, Ubaldo, il mio primo marito era ancora accanto a me. Ma lo fu per poco, perchè una febbre improvvisa se lo porto' via. Il giorno che conobbi Enzo ero ad un bivio. Dovevo scegliere tra lui e Guelfo Porcari. Tra il giovanissimo figliastro dell'Imperatore ed il protetto di Papa Gregorio IX. Non ebbi il minimo dubbio, io a prima vista mi incapricciai del giovane nordico. Lui in quel frangente mi illudeva, scrivendo versi poetici, nonostante la differenza di età, io avevo gia' 31 anni, ben tredici più di lui, ma in quello stato di euforia non ci badai per nulla.

Ci sposammo, lui diceva di amarmi e mi possedeva con lussuria ed io ero al settimo cielo. Credevo di aver rafforzato il Giudicato, sposando il figliastro dell'imperatore. Il padre lo aveva pure nominato Re di Sardegna. Ma non tardò la reazione Papale. Subito ci scomunicò, accusando me, la vedova di Ubaldo Visconti, di aver rotto il patto che avevamo sottoscritto, anni prima alla morte di mio fratello. Certo, se Enzo mi fosse rimasto accanto, invece di ritornare in Continente, le cose non avrebbero preso, questa brutta piega. Lasciandomi in balia degli eventi, dopo pochi mesi dal matrimonio. Fu così che una bella sera al nostro Palazzo di Ardara, sede e centro nevralgico, del Giudicato, mi annunciò:

"Mia cara Adelasia, io presto sarò al comando delle truppe Ghibelline. Mio padre, attraverso l'aiuto di amici le sta costituendo. Lo scopo e' quello di unificare l'impero, riportandolo agli antichi fasti. Vedrai che Enzo il Re della Sardegna, poi ritornerà qui al Palazzo di Ardara e ti porterà in dono il resto d'Italia. Intanto per aiutarti al disbrigo delle faccende quotidiane, che non sono consone ad una femmina come te , ti presento il fido Michele Zanche". Subito, io pensai “Enzo tornera' presto” ed accettai di buon grado. In verità a me il Sassarese Zanche però non era mai piaciuto. Sin da giovane, si era però fatto la nomea di -abile tuttofare- e tutti lo temevano per il suo carattere ed il suo carisma. Mai un ex maniscalco, nell'Isola tale reputazione, si era costruito.  Mi era quasi coetaneo e la prima volta che lo vidi era proprio un bambino. L'occasione fu durante la cerimonia delle mie prime nozze. Pure io ed Ubaldo Visconti, entrambi dodicenni, entrammo in pompa magna alla Santissima Trinità di Saccargia di Codrongianos. Lui, mi dissero poi il suo nomignolo, era uno dei due paggetti, che reggevano la lunga coda del mio candido abito di sposa fanciulla. Lo notai perché entrando nella basilica dal prato posto dinnanzi all'entrata, si attardava claudicante, rispetto all'altro compagno che sorreggeva la coda del mio vestito. Mi voltai di scatto, come per ammonirlo, ma lui mi fissò, con i suoi occhi nerissimi ed io immediatamente abbassai i mei, dimessa ed intimorita. Tanto che il padre Camaldolese concelebrante, mentre ci avviavamo verso l'altare, mi riprese, a sua volta: "Adelasia fidati, vedrai Micheddu (così appresi il suo nomignolo), ci mette il suo tempo, ma come dice il proverbio, chi va piano va sano e lontano". Chi lo aveva messo lì, non lo seppi mai, però ho sempre pensato, era un segno del destino. Del mio destino. Me lo ritrovai puntualmente, nel giro degli interessi di mio marito Ubaldo. Dopo la morte di mio padre, Mariano II di Torres, la successione toccò al mio giovanissimo fratello Barisone, allora undicenne. Per questo, fu messo sotto tutela dello zio Ithocorre. Ma in quel vuoto di potere, abilmente si inserì mio marito Ubaldo, spalleggiato tra gli altri dal sempre presente Micheddu. Che tutti ora chiamavano Michel Zanche,  capopopolo ormai incontrastato di Tathari. Qui Zanche ergendosi a paladino dei Sassaresi, che colpiti a lor dire da pesanti prebende, si rivoltarono. Coltivò e crebbe definitivamente il mito della sua personalità. Al culmine della protesta tesa a creare -Il libero comune in Tathari- poi io non seppi mai il motivo dovette fuggire. Lasciò addirittura l'Isola, rifugiandosi in alta Italia. Mantenne però sempre vivi contatti con mio marito Ubaldo. Io non seppi mai dei loro interessi comuni, ma temevo per il mio giovanissimo fratello Barisone.

Tant'è che una sera a cena, mio marito Ubaldo, accennò a me e mia madre "Questi tumulti di Tathari, cominciano a destare molta preoccupazione. In noi si è fatta strada l'idea che tuo fratello ora che è stato nominato a capo del Giudicato, qui ad Ardara, corra seri pericoli. Ne ho parlato, oggi, con zio Ithocorre ed abbiamo concordato che sarebbe più sicuro per lui un trasferimento a Sorso. Là tutto è tranquillo, tu Adelasia che ne pensi?

Io non avevo nessuna idea in merito, ma volevo un gran bene, al mio fratellino. Pensai sinceramente, fosse per il suo bene futuro, tra l'altro Ubaldo mi confermò che la' presso i frati di S.Pantaleo, avrebbe completato la sua formazione. Quindi appoggiai completamente, la sua partenza per Sorso. Barisone partì ed io non lo rividi, mai più. Fu assassinato e fatto a pezzi. Mia madre, appresa la notizia, da quel giorno non fu più la stessa.  "Io qui ad Ardara, non resisto più, domani parto per Karalis, approfitto della presenza di mio cugino, venuto per il funerale di Barisone".

Già, già tutti questi ricordi, si intrecciano, ma il dolore piu' grande che ancora mi tormenta e' il tradimento di Enzo. Dopo quella sera, piena di promesse, parti' e mi lascio' per sempre. Certo il suo ricordo me lo lasciò:

Elena; ed ora gia' tre anni erano trascorsi, dalla sua nascita. Cresceva ed era l'immagine di Enzo. I suoi occhi azzurri e le treccine bionde, ne erano la testimonianza. A lei piaceva verso il tramonto, affacciarsi alla finestra posteriore del Palazzo di Ardara. Li' si si godeva il calare del sole ed io la osservavo con tenerezza ed amore materno. La sua eterea immagine, contrastava, con la sottostante nera e severa facciata della cattedrale e laggiù il purpureo profilo dei monti lontani, verso l'orizzonte. Io ancora sognavo, che suo padre tornasse. Ma Enzo non tornava ed il mio cuore, ogni giorno che passava era sempre più turbato.Ed ora lo Zanche ci faceva visita, regolarmente. Il suo ruolo di Vicario, lui diceva gli imponeva di essere presente, per meglio coadiuvarmi negli affari del Giudicato. Lui stesso quel pomeriggio, vide la mia piccola in contemplazione del tramonto. Quasi distrattamente le si avvicino' e come se da lei fosse impietosito, lancio' il suo anatema nei confronti di Enzo.

-Che errore e che sottovalutazione feci il giorno che spinsi il bastardo ragazzino tedesco tra le braccia di tua madre.

Era pero' tanto e tale il mio risentimento che provavo in quel momento nei confronti di Enzo, che le parole di Michele, anziche' farmelo odiare mi confortarono. Lui era impudente e scaltro e mi capiva immediatamente. Forte del suo bluff, rincaro' la dose:

-La nostra giudicessa, tua madre e' una santa donna, la luce più splendente del Giudicato di Torres. Io mai mi sarei comportato come lui.

Fu cosi' che quella notte, io come sempre povera illusa e forse per rivalsa verso Enzo , gli cedetti e pure nelle notti che seguirono. Lui ormai si era preso tutto, il Giudicato ed anche il mio onore di donna maritata. Soltanto la mia anima, sempre piu' fragile e confusa, mi restava. Ma un'altra sorpresa mi colse in quel tempo travagliato; una nuova gravidanza.

Che fare?

Non mi restò che informare, lui Michele Zanche, il mio nuovo amante e curatore ormai incontrastato, dei miei interessi Giudicali. Sulle prime lo vidi per un attimo confuso e contrariato. Per tutti io ero, nonostante la sua partenza ed il mancato ritorno, la moglie di Re Enzo. Figlio illegittimo dell'imperatore Federico. Pero'  da lui nominato ed innalzato a Re di tutta la Sardegna. Non passarono che pochi giorni. Michele di buon mattino venne a palazzo e con il cinismo e la faccia tosta di sempre, mi comunico':

"Mia cara Adelasia, ho molto riflettuto sulle vicende chi ci toccano entrambi. Tu sai che non verro' meno alle mie responsabilità. Perciò la cosa da fare ora, prima che la tua nuova gravidanza si manifesti in tutta la sua evidenza e' che tu lasci il Palazzo di Ardara.

- Per andare dove? Io azzardai.

- Visto che l'estate sta per arrivare, se ti trasferirai al castello di Burgos, nessuno avrà da ridire e tu potrai in tutta discrezione portare avanti la nuova maternità.

Vista la mia condizione, non potei che avallare la sua proposta, che per altro mi sembro' del tutto sensata. Mi avrebbe permesso di sottrarmi a tanti occhi indiscreti ed a altrettanti pettegolezzi.

In fretta e furia nei giorni successivi, io, Elena ed i domestici a noi più fedeli, partimmo per il Castello di Burgos. Lo Zanche, sarebbe invece rimasto ad Ardara, per il disbrigo degli affari correnti del Giudicato. Mi avrebbe raggiunto a Burgos di tanto in tanto, per non venir meno al patto segreto tra me e lui. Cosi' fu, arrivo' l'autunno e poi l'inverno che quell'anno fu particolarmente rigido. La foresta attorno al castello era completamente imbiancata, quando venne al mondo la mia seconda bambina. Una moretta con due occhi scuri come carboncini e la pelle olivastra. Un bel contrasto, del tutto evidente, rispetto ad Elena. Decidemmo io e Michele di chiamarla Agnete. Lui ora quasi tutte le settimane veniva da Ardara e saliva al castello di Burgos, osservava la nuova venuta e restava come in adorazione.

Era quasi primavera, quando spavaldo come sempre mi annuncio':

  • Adelasia, ti porto una grande notizia, non c'é più nulla da temere, nessuno da oggi in poi, ti potrà e ci potrà condannare per la venuta al mondo di Agnete.

Cos'era dunque successo, ad Enzo? Qual era il motivo che faceva sentire Michele, cosi' certo del fatto suo?

- Adelasia, come tu ben sai, molti fatti si son succeduti, a nostra insaputa, da che tuo marito e' partito.

Certo, l'eco delle sue gesta, arrivava sin qui. Già pochi mesi dopo la sua partenza, quel blocco navale da lui capeggiato all'Isola del Giglio, ai danni di Papa Gregorio IX, inasprì ulteriormente i rapporti già tesi tra il nostro Giudicato e la Santa Sede. Lui Enzo il braccio e suo Padre Federico II, il mandante. Con il ratto al Giglio degli alti prelati Francesi salpati da Genova in viaggio verso il Concilio Romano, sfidavano apertamente il potere Papale. I rapporti tra il Papa e l'imperatore si stavano facendo sempre più tesi. Entrambi capeggiavano una fazione Gregorio IX i Guelfi e l'imperatore Federico II di Svevia i Ghibellini. Entrambi si sentivano investiti direttamente dal Padre Eterno ed ognuno di loro voleva esserne il legittimo rappresentante terreno. Il loro confronto si trasferì ben presto anche sulla terra ferma, era un dualismo ed una rivalità senza quartiere. L'autorità imperiale sembrava inarrestabile e l'invasione di Roma imminente. Ma ancora una volta il fato ci mise lo zampino, inaspettatamente Gregorio IX fu colto da morte improvvisa e l'imperatore Federico in segno di pietà fermo' l'assedio Romano. Ora il giovane e smanioso Enzo si trasferì in alta Italia. Altre sfide, lo attendevano e lui non si tirava certo indietro. Qui conobbe nelle sue nuove scorribande, un valente condottiero e fedele amico di suo padre, Ezzellino Romano. Alla sua Corte, Enzo era ammirato dagli uomini, ma soprattutto dalle donne. Conobbe ben presto un nuovo amore Costanza, la splendida nipote del valente capitano di ventura. Fu un vero colpo di fulmine!!!

-Due giovani, fatti uno per l'altro.

Chioso' sarcastico Michele Zanche nel comunicarmi la novità.

Aggiunse poi:

Il loro matrimonio, sarà celebrato entro brevissimo termine.

Stavo sprofondando, ma con apparente calma lo ripresi:

-Ma come e' possibile tutto ciò!!!

-Semplice mia cara, il nuovo Papa, Innocenzo IV, vuole una tregua con Federico II di Svevia e scioglierà il tuo matrimonio con Enzo.

Ora realizzai prima che proseguisse, perché la nascita di Agnete, non costituiva, piu' alcun problema.

Ma Michele, ormai senza freni, avanzo' l'ulteriore proposta che naturalmente a me sembrò una vera imposizione:

- Nulla ormai potrà impedire, la nostra unione, di niente ci dovremo più vergognare, Agnete avrà la stessa dignità di Elena.

In effetti quest'uomo diabolico, sembrava avere perfettamente ragione. In un colpo solo, il Giudicato riacquistò la fiducia del Papato e la nuova nata non era più il frutto avvelenato del nostro peccato, ma la consacrazione della nostra unione ed il riavvicinamento al nuovo Papato Romano. Ma ciò che non compresi lì per lì, fu l'apparente indifferenza, mostrata da Enzo ed all'imperatore Federico, nei nostri confronti. Enzo per altro  continuò a fregiarsi del titolo di Re di Sardegna, nelle sue nuove scorribande Padane. Lo avrei scoperto, molto più tardi il motivo, quando in catene, dopo la battaglia di Fossalta, paesino Modenese di confine, tra l'Impero e lo stato Pontificio. I Guelfi Bolognesi lo catturarono durante la battaglia e lo condussero prima nella torre di Anzola e poi fino in città a Piazza Maggiore e lì lo imprigionarono. Ancor oggi lì giace, ma in una condizione totalmente diversa dalla mia. Io sono vera prigioniera qui a Burgos, che certo pensavo di lasciare immediatamente dopo il mio terzo matrimonio. Ma Michele fu irremovibile:

- Adelasia, finalmente la nostra vicenda ha trovato con il matrimonio, la giusta conclusione. Ora per il bene del Giudicato, tu resterai qui al sicuro con le figlie. Io ad Ardara, potrò meglio fronteggiare le velleità dei Sassaresi, che in modo sempre più oltraggioso, rivendicano l'indipendenza del Comune. Quel Palazzo non è più sicuro, come lo fu nel passato, per una madre e due piccole.

 Io piansi, certo ero colei che era stata investita, dopo la morte di mio fratello Barisone, a reggere le sorti familiari e quindi del Giudicato. Ma la completa solitudine nella quale ero relegata, qui a Burgos, mi impediva qualsiasi atto di governo. Inoltre la morte violenta di mio fratello per mano degli insorti cittadini di Tathari ed il conseguente abbandono di Enzo, non facevano che dare ragione allo strapotere dello Zanche, che ora aveva preso decisamente nelle sue mani non solo il mio destino, ma anche il Giudicato di Torres. Intanto Elena ed Agnete, crescevano come due vere sorelle, l'una per l'altra e pur nella loro diversità fisica erano ai miei occhi come una sinfonia, dolce e struggente. In quel tempo, il ricordo di Enzo, tendeva a svanire pur comprendendo che era stato lui, con la sua fugace apparsa il mio grande amore. Tuttavia il passare del tempo e ciò che mi veniva riferito di lui, me lo resero più sfumato e la sua figura era ora compensata dalle certezze che mi offriva Michele Zanche.

Finchè la verità mi aprì gli occhi, in tutta la sua crudezza. Contemporaneamente alla notizia, della prigionia Bolognese di Enzo, ricevetti una mattina una missiva personale. La fedele ancella me la consegnò dicendomi:

Un cavaliere l'ha portata personalmente, da parte di Adelaide Urslingen Marano.

Chi era dunque costei?

Era un plico assai spesso, se di corrispondenza si trattava, questa donna a me completamente sconosciuta aveva molte cose da riferirmi. Mi chiusi nello studiolo, comodamente seduta, tirai la cordicella, fissata dalla ceralacca ed un manoscritto di tutto rispetto si presentò pronto per la lettura. I convenevoli di rito, facevano capire immediatamente l'alto rango, di chi mi stava scrivendo. Li superai velocemente e andai subito alla ricerca di dettagli meno formali:

  • ...sono vostra coetanea e sinceramente nutro nei vostri confronti un sentimento di rispetto e solidarietà. Vi chiederete la ragione di questa mia, visto che mai ci siamo conosciute personalmente. Io sono colei che ha messo al mondo Enzo, la madre di cui so per certo lui non vi ha mai confidato il nome e tanto meno vi ha parlato dei suoi sentimenti nei miei confronti. Vi prego, non vi indignate, leggete l'intero contenuto, prima di giudicarmi........

Certo, ero indignata, ma era troppa la curiosità e non ebbi il minimo dubbio, proseguii la lettura:

......Non avrete poi modo, di rispondermi, perchè quando leggerete queste parole, io non farò più parte, di questo mondo. Al pari vostro, anch'io sono vittima del sistema di potere costituito, che sovrasta entrambe. Inoltre io l'unico titolo che vanto è quello di concubina e di fatto il mio tempo si è compiuto. Al proposito, vi debbo alcuni passaggi, per meglio farvi comprendere, quanto ci accomuna. Scusate se la prendo da lontano, partendo dalla mia adolescenza. Ero come voi, una ragazzina di quattordici anni, quando avvenne la svolta della mia vita. Son certa che già, un primo filo sottile, ci possa accostare ed unire, voi in quel tempo stavate per conoscere il vostro futuro primo marito ed io conobbi addirittura l'imperatore Federico II. La differenza è che Ubaldo Visconti, diventò effettivamente vostro marito, mentre l'imperatore era già sposato ed io fui unicamente un suo capriccio, che non ebbe mai alcun riconoscimento. Certo lui arrivò a Spoleto in Estate al tempo della mietitura. Ospitato dalla mia famiglia Urslingen Marano, lontani parenti con discendenza Sveva. Si fermò proprio lì presso di noi in attesa essere ricevuto a Roma da Papa Gregorio IX. Una parentesi, ma complice la trebbiatura, fu improvvisata in suo onore una grande festa di sapore pagano. Io biondissima, dalle lunghe trecce intersecate dalle generose spighe dorate, feci gran colpo su di lui:

-Chi è la piccola Valchiria? Gridò l'imperatore.

-Adelaide, la mia secondogenita! Rispose raggiante mio padre.

Si sa poi come vanno le cose, io credo voi mi possiate capire bene. Non solo seguii Federico II a Roma, tenendomi a debita distanza, dagli incontri tra l'Imperatore ed il Papa, ma lo seguii nei mesi successivi fino ad Hagenau, lì dove aveva stabilito il suo quartier generale. Entrai in società, con il titolo di damigella di corte, i pettegoli scoprii poi malignarono “Anche la piccola Adelaide ora è parte integrante del suo harem”. Aveva messo a mia disposizione il casino di caccia nei pressi della Foresta sacra vicino al fiume e per questo sulle prime credetti di essere per lui, una donna speciale. A quel tempo, ci incontravamo un paio di volta la settimana, lì venne concepito Heinz, che entrambi chiamammo però sempre: Enzo. La ragione era così ci dicevamo, la nostra Italianità spiccata, di me avete già saputo dove ero nata e cresciuta e dell'Imperatore immagino conosciate attraverso i racconti di Enzo, lui ha sempre amato parlare di suo padre e del suo amore per la penisola.

Questa donna ha perfettamente ragione. Ricordo perfettamente, appena lo conobbi, Enzo oltre alle rime che declamava per conquistarmi metteva continuamente in evidenza aspetti e trascorsi Italiani della gioventù del padre e continuamente mi raccontava :

    - Era nato per caso a Jesi, ma trascorse molti anni da ragazzo nelle scorribande nei vicoli e nei souk della Medina di Palermo, la città materna . Senza alcun segno dell’imperiale regalità, sgusciava dalla porta secondaria della reggia del Palazzo dei Normanni, per immettersi, da subito, per confondersi nel popolo minuto della capitale, nel sole del mediterraneo, nei profumi e nel vivere della gente variegata della città. Nelle vene di mio padre, pulsava il sangue impetuoso degli antichi normanni, errabondi, pirati ed avventurieri, malconiugati con quello gentile degli Altavilla. Diciassettenne, ripartì per la Germania. Tra i fitti boschi della Alsazia e le colline che dagli aspri monti dei Vosgi, dolcemente degradano verso il Reno, si acquartierò nella deliziosa Hagenau. Per cingere la corona imperiale, per convocare la dieta dei principi tedeschi, per affrontare e dirimere i problemi mitteleuropei; per ipotizzare una grande Europa, unita ma laica, sia pur nel rispetto della chiesa e delle altre confessioni religiose. E qui conobbe e perfezionò l’arte nella caccia agli orsi ed ai cinghiali, prima sconosciuti; si allontanò definitivamente dalla ressa dei mercati di Palermo, dalla pompa di Roma papalina. Si immerse nel profumo degli abeti e delle querce secolari dei boschi e nella tranquillità del castello immerso nella fitta vegetazione d’attorno, ma soprattutto nella atmosfera raccolta della ricca biblioteca.

    Non divago oltre tra i miei ricordi e riprendo la lettura:

    Certo il clima Alsaziano, soprattutto d'inverno, pesava ad entrambi ed io presto rimasi come vi ho già menzionato, incinta, lui al tempo era premuroso e mi consolava in quelle fredde giornate, fantasticando sul futuro della nuova creatura che sarebbe venuta alla luce:

-Lo sento, sarà maschio, nelle sue vene scorrerà sangue tedesco, ma nello stesso tempo crescerà con il nostro spirito Mediterraneo.

Così fu e lui continuò per molti anni, per una buona dozzina a frequentarmi assiduamente, mettendomi a disposizione mezzi non solo per il nostro sostentamento.

Ma mandò anche istitutori e maestri, che curarono la formazione dell'ormai adolescente Enzo. Era appena trascorsa la Pasqua e l'imperatore era da più di un mese che ormai non ci faceva visita, inoltre negli ultimi tempi, non era più assiduo come in precedenza. Noi lo accogliemmo come sempre e lui ci comunicò che a pranzo ci avrebbe dato “La per voi lieta novella”. Sentimmo che qualcosa di importante, ci attendeva e così fu. L'imperatore, non indugiò troppo:

-E' venuto il tempo, del distacco, tu Adelaide seguirai Enzo a Cremona, io tengo particolarmente che lui completi il suo percorso verso il sogno che sempre abbiamo nutrito per lui. Là troverete miei vecchi e nuovi amici, alcuni sono locali, ma altri vengono da tutta la penisola, anche loro tutti nutrono il sogno di una penisola di nuovo tutta unita, come al tempo di Roma imperiale ed Enzo tra qualche tempo dovrà rappresentare colui che potrà realizzare questo grande progetto. Detto fatto, partimmo per Cremona dopo pochi giorni, con la promessa che l'imperatore Federico, sarebbe venuto spesso ora che la città dopo la vittoria di Cortenova, era saldamente nelle mani imperiali. Arrivammo così in città e già si respirava quel clima di ostilità aperta, tra le fazioni imperiali, contrapposte a quelle Papaline. In questo contesto, crebbe Enzo quasi diciottenne, la sua esuberanza andava di pari passo, con gli studi e gli incontri che il padre aveva programmato per lui. Una sera si presentò a casa con un ospite, un uomo non troppo alto, dai capelli corvini ed occhi nerissimi, pure l'incarnato era scuro, notai immediatamente il suo incedere claudicante.

-Michele Zanche, al vostro servizio, madonna Adelaide. Irriverente e sicuro di sé venne al mio cospetto, costui che mi chiesi immediatamente chi fosse, per presentarsi in modo tanto spavaldo. La serata trascorse cenando in sua compagnia e tra una portata e l'altra, quest'uomo fu molto galante nei miei confronti. Io ne trassi, non ve lo nascondo un gran piacere, visto che l'uomo a cui avevo dedicato la mia vita, ormai si era completamente scordato di me. Enzo con la sua esuberanza, me lo magnificò, ulteriormente:

-E' uno dei nostri, laggiù in Sardegna, è l'ago della bilancia, pure l'imperatore mio padre, ha grande rispetto per lui. Recentemente, dopo le sommosse di Tathari e l'assassinio di Barisone III di Torres, si è allontanato dall'isola per venire proprio qui a Cremona e chiedere il nostro soccorso, per contrastare il disegno Papale, quello di far maritare la nuova Giudicessa Adelasia con il Pisano Guelfo Porcari.

Fu così, che per la prima volta, udii parlare di voi e delle sfortunate vicende che riguardarono la vostra famiglia che vi portarono alla reggenza del Giudicato di Torres. Ora attraverso la mediazione di quest'uomo, veniva proposto all'imperatore Federico, di intervenire in prima persona per fermare il disegno di Papa Gregorio IX.

Era ormai notte fonda, quando si spense l'ultima candela che avevo lì nello studiolo, alzai gli occhi dalla coinvolgente missiva ed esclamai:

-Michele, ancora lui, sempre lui!

Avrei voluto, continuare per tutta la notte, ma l'impegno dell'indomani mattina con le bambine, mi fece desistere dal proposito. Loro Elena ed Agnete, erano l'unico conforto e nonostante ciò ancora una volta avvertii, la mia impotenza, su quanto era successo attorno e sopra di me.

Ma ben presto ripresi la lettura ed appresi che Adelaide, era poi divenuta l'amante di Michele Zanche, ma non solo:

  • Seguii Enzo a Tathari, Michele Zanche, ci sistemò a Casa Defraia. Vi conosceste Enzo faceva la spola tra il vostro palazzo di Ardara ed il palazzo Sassarese. Come ben sapete lui rimaneva anche dopo il matrimonio, solo qualche giorno ad Ardara e poi ritornava qui.

    Già era stato proprio come mi raccontò, Enzo fin dai primi tempi, era si carino e pieno di attenzione per me, ma non si tratteneva ad Ardara che qualche fuggevole momento. Michele invece dopo la scomparsa di mio fratello l'avevo proprio perso di vista, ma era lui il vero regista e sceneggiatore della mia vita e del Giudicato. Che fessa e nessuno da zio Ithocorre agli altri che fecero da tramite a questa messa in scena, profferì mai a me alcuna parola. Ora tutto mi fu chiaro, dopo due giorni, seppi che Adelaide, era morta suicida. Michele, ottenne la tanto desiderata bolla Papale, con il definitivo annullamento del mio matrimonio con Enzo. In pompa magna fu celebrato il mio terzo matrimonio, lui volle fortemente che ci sposassimo, la dove molti anni prima, mi aveva fulminato con quello sguardo, la Santissima Trinità di Saccargia. Seguirono i grandi festeggiamenti, al Palazzo di Ardara, lì rimasi con le mie figlie poco tempo. Le tenevo in braccio e le stringevo al petto, ammirando al tramonto il severo profilo della nera cattedrale ed il profilo di quei monti laggiù, dove Michele mi relegò, fino alla fine dei miei giorni.


    A Burgos Adelasia, morì infatti solo qualche anno dopo, le furono strappate le figlie e questo fu per lei, l'ultimo affronto. Nel frattempo Federico II di Svevia, padre di Enzo morì poco dopo il suo matrimonio con Michele Zanche. Enzo imprigionato a Bologna, non fu mai liberato dai Bolognesi, ma la sua prigionia fu dorata in quel Palazzo che ancor oggi porta il suo nome. Visse ancora molti anni dedicandosi, anima e corpo alle sue passioni, la poesia e le concubine. L'allora Palatium Novum, fu ampliato per ospitarlo, si narra che ebbe almeno tre figlie naturali da queste relazioni. Inoltre dalla relazione con tale Lucia di Viadagola, nacque un bambino al quale fu dato il nome di Bentivoglio, per le parole che Enzo ripeteva alla sua amata Lucia:

  • Amore mio, ben ti voglio.

    Secondo la liturgia popolare, questo bambino divenne poi il capostipite della famiglia più illustre di Bologna, I Bentivoglio, signori di Bologna dal 1401 al 1506.

    Enzo continuò in quegli anni ed in quella Bologna, caratterizzata dal “Liber Paradisus” a poetare. Mantenendo ben stretto il titolo di Re di Sardegna fino alla morte.

    Il suo vicario Michele Zanche, dopo il matrimonio con Adelasia, non fece passare molto tempo per mettere in atto il proprio disegno, rispedendola appunto a Burgos. Le tolse le due figlie, appena raggiunsero l'età da marito e per il crepacuore lei non superò quest'ultimo affronto. Ma pure il suo destino ne uscì segnato. Ad Agnete a cui Michele teneva particolarmente, appena fu dodicenne, ne favorì il matrimonio con un alto esponente della famiglia Doria. I Doria, da tempo avevano messo gli occhi sul Giudicato di Torres. Ed in un intrigo di palazzo lo fecero avvelenare e Branca Doria il mandante e marito di Agnete, gli succedette nel governo del Giudicato, sciogliendo Tathari, dal vincolo Giudicale. I Sassaresi costituirono così un libero Comune ed in breve tempo anche il Giudicato di Torres tramontò per sempre.

 

MONTE BIBELE

 

 

Dopo la loro scoperta, alla vista di quelle tombe e del loro contenuto:

“Viene naturale pensare a matrimoni di alleanza tra persone di rango e di opposti schieramenti per sancire il superamento e la fine di una situazione di contrasti: una Etrusca che avrebbe sposato un capo Celta, qui meglio conosciuti come Galli Boy”.

Già in quel tempo di trapasso, quelle orde arrivarono da nord e seguendo la via maestra dei fiumi che scendevano tra quelle maestose montagne dette Alpi ed arrivarono alla grande pianura alluvionale. Seguirono poi per un tratto il fiume più largo che tagliava in due la pianura e con piccole imbarcazioni impararono ad attraversarlo.

 Qui tra gli acquitrini invivibili pieni di insetti e zanzare, Synatos il loro Druido decise di fermarsi sull’istmo circondato dalle acque che avevano appena raggiunto. Volevano subito ripartire verso quelle montagne che il cielo terso fece loro intravedere verso sud.

 “Ci fermeremo qui per questa notte, domani raggiungeremo e seguiremo il corso del fiume che dopodomani ci porterà lassù verso quelle colline che più a destra culminano verso quel Cimone”.

Synatos aveva una grande missione da compiere in nome del suo defunto padre.

Alcuni dei suoi i più anziani con il padre Synoircs avevano già percorso questa via in scorrerie precedenti.  Dopo aver raggiunto i territori Etruschi, avevano razziato qualcosa a quel popolo molto più evoluto. Erano però sempre stato respinti, ma non perdevano occasione per spingersi nei loro territori e tentare nuove incursioni.

 

Però la vicenda legata a Camara aveva cambiato il destino dei due popoli.

 

Già Camara la bellissima discendente di Felsina , era adolescente in fiore, una folta e ondulata capigliatura color grano maturo. Fin da bambina era stata promessa a Ortagion, attempato e potente capo Etrusco della vicina Kainua. Lei di solito solare e piena di vita, era ora molto triste. Era il giorno che la colonna composta da pochi uomini Etruschi di scorta,  la portava definitivamente da lui.

 L’imboscata fu fulminea Synoircs, il padre di Synatos, a capo di un manipolo di uomini massacrò la scorta di Camara e urlò ai suoi “ la voglio viva”. La prese per il braccio destro all’altezza del gomito e l’attrasse a sé guardandola intensamente, poiché non potevano intendersi a parole.

Gli uomini razziarono ciò che poterono, in particolare due otri che contenevano una sostanza liquida a loro completamente sconosciuta. Era vino che consumarono tutti tranne Synoircs, la sera stessa. Si addormentarono come sassi, per fortuna lui vegliò sulla bellissima prigioniera. La mattina si svegliarono molto impastati magnificando al loro Druido la sostanza. In particolare Sarnas il suo braccio destro “è una vera pozione magica, devo capire cos’è e come la fanno” ed aggiunse a Synoircs “lei ci dovrà spiegare”. Pronta fu la risposta di Synoircs “Sarnas, abbi pazienza ora la ragazza dovrà avere almeno il tempo di capirci, per ora di lei mi occupo io, ci sarà tempo per questo”.

Decisero poi di ricongiungersi al resto della spedizione e ritornare ai loro monti, al di là del grande fiume.

Camara non capì bene cosa si stessero dicendo i due uomini, ma ora il cuore cominciò a battere più lentamente, si rilassò. Dopo quello che a lei sembrò un lungo viaggio lungo il corso di quei fiumi, salirono su un grande altipiano verde. Il verde dei prati rasati dai molti animali al pascolo si stagliava su alte cime di roccia che verso sera prendevano con gli ultimi raggi del sole un aspetto purpureo. Era un paesaggio molto diverso dalle sue colline, ma altrettanto affascinante, anzi con lui vicino gli parse pure meglio. Lui la trattava con rispetto e gentilezza, poi a differenza di Ortagion era giovane e bello. Non passò molto tempo che Camara incominciò a comprendere il loro linguaggio. Lui Synoircs la proteggeva, mentre Sarnas diventava ogni giorno più impaziente “E’ tempo che Camara, ci sveli il segreto della dolce ambrosia”.  Synoircs finalmente si impegnò di farlo, e lei gli comunico’ che tutto nasceva da una pianta chiamata vite che va coltivata però seguendo determinate regole che lei non conosceva bene. Poi quando il frutto chiamato uva giungeva a maturazione altre alchimie da lei pure sconosciute occorreva mettere in atto per trasformare quei grappoli in vino. Non passò molto tempo che il loro amore sbocciò completamente e decisero di sposarsi seguendo il rito celtico.

Appena Sarnas apprese da Synoircs le notizie che aspettava, decise di ripartire verso l’Etruria. Con pochi uomini al seguito e con un Etrusco che fu catturato vivo mentre con altri sei fu colto che saliva al loro altipiano. Cinque furono eliminati all’istante, ma questo che conosceva la loro lingua fu risparmiato. “Ci farà da salvacondotto”, raccontò lo stesso Sarnas a Synoircs.

 

Si ripresentarono al cospetto di Synoircs, che erano trascorsi almeno sette otto cambi di stagione. Synoircs, li aveva ormai dati per morti. Erano invece tornati con molti orci di vino e dieci sacchi di giovani piantine “Pronte ad essere sotterrate lungo le pendici, tra il fiume Adige e l’altopiano”, gli comunicò soddisfatto ed orgoglioso, Sarnas. Li sarebbero cresciute e presto anche loro ormai avrebbero prodotto il nettare di Bacco. Sarnas propose poi di fare una grande festa e si complimentò con Synoircs per la nascita del piccolo Synatos e concluse “questa volta spero non mancherai di bere con noi”. Synoircs sorrise all’amico di sempre e disse “Stai tranquillo…questa volta mi lascerò andare, ora non posso chiedere alla vita…niente di più”.

I giorni successivi trascorsero sulle pendici dell’altopiano a piantare tutte quelle giovani pianticelle, sicuramente ne sarebbe scaturito un ottimo vino. La sera della grande festa Camara affidò il suo piccolo fanciullo, alla sorella del marito Syrtis, che abitava ad una certa distanza dal villaggio. Sarebbero passati a prenderlo un paio di giorni dopo. Le libagioni erano abbondanti gli uomini avevano preparato fin dal mattino i bracieri ed il vino scorreva in grande quantità.

Synoircs era talmente ubriaco che neppure se ne accorse quando Sarnas gli tagliò la gola con mossa fulminea.

Intanto un suo uomo con due compari entrò nella sua capanna e immobilizzò Camara e cercarono inutilmente Synatos. Camara completamente imbavagliata fu immediatamente portata via e riconobbe l’Etrusco catturato prima dell’ultimo viaggio in Etruria di Sarnas. Partirono immediatamente e l’indomani Sarnas li raggiunse.

L’Etrusco parlò a Camara :

“io sono qua per riportarti a chi eri stata promessa, grazie a Sarnas che si è dimostrato un ottimo amico il patto stipulato con il nostro Re Ortagion potrà essere onorato”.

 

Lei si sentiva morire, ma non volle dare loro soddisfazione, le avevano tolto il bavaglio, ma non profferì parola.

“Synoircs, ti ha offesa e per questo ha pagato il prezzo dovuto, ora nulla ostacola l’amicizia tra i nostri due popoli”.

L’Etrusco disse infine”Re Ortagion ti aspetta a braccia aperte, riguardo a quel bastardo di Synatos, non lo abbiamo ancora trovato ma dimenticalo è stato per te solo un incidente”.

Intanto Syrtis fece in tempo a fuggire aiutata dal marito che apparteneva ad un’altra tribù portarono Synatos con loro al villaggio del suo uomo. Ma tornarono presto all'altopiano sull'Adige. Gli amici di Synoircs ebbero presto la meglio sui compari di Sarnas rimasti a vigilare in attesa del suo ritorno.

Il bambino sarebbe stato educato come il futuro druido della tribù dei Galli Boy ed avrebbe preso a tempo debito il ruolo occupato dal padre barbaramente trucidato.

Intanto Camara fu riportata là dove doveva andare quel giorno che fu rapita. Al suo arrivo a Kainua fu accolta da Ortagion come se nulla fosse successo “Mia cara, finalmente ti rivedo, sai sono stato in pena per tutto questo tempo”. Lei aveva lo sguardo perso verso il fiume che placido scorreva là sotto il prato che si perdeva verso le dolci colline. Lei la principessa di Monte Bibele avrebbe potuto dirgli in faccia “Ti odio, mi hai sempre fatto schifo, non mi avrai mai, ho amato solo Sinoircs”. Ma ora capì era meglio prendere tempo e nonostante tutto il dolore che aveva accumulato dentro. “ Sono stati anni difficili, il rapimento e la violenza subita mi hanno segnata dentro, ora ho bisogno di riprendermi un po’”. 

Lui era cinico ed esperto, si mostrò paziente “certo, mia cara comprendo, tu ora qui sei a casa tua al sicuro, oggi stesso ti prometto avrai la tua rivalsa…”. Non capiva cosa egli intendesse dire. Ma poco dopo venne da lui accompagnata verso la parte più bassa dell’insediamento, comprese vedendo quei grandi massi di selenite, che si dirigevano verso la necropoli. Contemporaneamente udì le urla strazianti di un uomo e subito ne riconobbe la voce era Sarnas. Si avvicinarono e lui senza alcuna emozione anzi compiaciuto ordinò “tagliategli la testa”.

“Ecco ora anche l’ultimo legame con questi barbari che ti hanno offesa è reciso”. Lui era convinto di avere cancellato con quell’atto tutto il suo passato, ma non era così. Alcuni giorni dopo la raggiunse a Kainua il fratello Cadmo proveniva da Monte Bibele e le portava notizie dal suo villaggio natale. I due si abbracciarono dopo tutto quel tempo, lui era il fratello minore,

lo aveva lasciato adolescente ora era un uomo. Furono finalmente lasciati soli e lui sottovoce le disse” Camara, molte cose sono cambiate da quando tu ci hai lasciati. Nostro padre non c’è più, a mamma hanno imposto un altro marito, il cognato di Ortagion anche lui rimasto vedovo nel frattempo. Il  legame della nostra comunità con Kainua si è fatto sempre più stretto, molti di noi giovani di Monte Bibele si sentono a disagio in questa sgradevole situazione. Aggiunse poi “parlami di te piuttosto, a noi è giunta voce da un guerriero barbaro catturato nei pressi di Monte Bibele, che tu fossi felice e addirittura ti fossi maritata con l’uomo che ti rapì”. “E’ vero, quell’uomo vi ha detto la sacrosanta verità, io ho amato Synoircs, da lui ho avuto ho avuto un figlio, egli si chiama Synatos. Il marito me lo hanno ammazzato davanti ai miei occhi, dei bastardi infedeli su mandato di Ortagion. Appena sono giunta qui Ortagion ha fatto tagliare la testa a colui che ha capeggiato l’operazione per dimostrarmi che lui non c’entrava e per farmi avere sempre secondo lui la giusta vendetta. Ma io non me la sono bevuta. Riguardo a mio figlio per fortuna lo avevo affidato alla sorella di Synoircs qualche giorno prima del suo omicidio, la quale spero sia riuscita a metterlo al sicuro lei viveva presso un’altra comunità assieme al suo compagno. Di lui ora non so assolutamente nulla. Per cui ti prego se avrai modo ora che sai manda tuoi emissari presso la comunità dove vive mia cognata Syrtis in cerca di Synatos. Io cercherò per ora di assecondare Ortagion, quando avrò di nuovo tue notizie, valuteremo il da farsi”. Cadmo promise a Camara che avrebbe fatto quanto ella richiedeva e ripartì per Monte Bibele il giorno stesso.

Di lì a poco però Ortagion, si mostrò impaziente voleva impalmare Camara, il desiderio di possedere il suo corpo era irrefrenabile, lei da un lato lo illudeva, ma cercava di prendere altro tempo. Intanto Cadmo era sulle tracce di Synatos ed ebbe presto la certezza che i galli Boy volevano la testa di Ortagion e ricordavano Camara come la loro regina.

Nacque così una grande alleanza tra gli uomini di Monte Bibele e questi Galli Boy, considerati fino allora acerrimi nemici. Ma Cadmo non riuscì ad ottenere un appoggio immediato, lui stesso valutò pericoloso per la stessa incolumità di Camara un intervento troppo frettoloso contro la consorella comunità di Kainua.

Ma il giorno tanto temuto arrivò, la cerimonia fu celebrata, al culmine della festa Camara offrì il calice a Ortagion il quale non esitò lo incrociò con il suo bevve ed esclamò “Oh, è arrivato il gran giorno mia….”. Non fece in tempo a terminare la frase che cominciò a contorcersi e cadde insieme a lei che con un filo di voce gli disse “…già è arrivato ma….l’unica soddisfazione che ti toglierai..sarà quella di crepare…assieme a me..”. Lei aveva versato un attimo prima il veleno contenuto nell’anello che ancora appariva con la coroncina a coperchio aperta, dall’anulare della mano sinistra.

 

Synatos rivive così… raccontando ai giovani compagni la storia della madre Camara e del padre Synoircs. “Ecco ora sapete come andarono le cose, ma noi siamo qui perché crediamo in un futuro migliore, dopodomani a Monte Bibele le spoglie mortali di mio padre si uniranno per sempre a quelle di mamma”.

lunedì 26 dicembre 2022

 

NASCITA DI BOLOGNA TRA MITO E REALTA’

 

Fero, la compagna Aposa e la loro piccola Felsina, scendono dalla collina, lungo il torrente. E’ una stupenda mattina di sole, la stagione estiva sta per finire. Fero e Aposa, si guardano complici. La loro mente ed i loro corpi, ancora frementi, per il caldo risveglio. Mentre camminano, ricordano con nostalgia, la partenza ed il distacco dal loro paese natale, là sulle coste orientali del Mediterraneo. Il saluto straziante, dei loro cari, la nave Etrusca

che salpava. La prima notte con il mare in burrasca, ancora Felsina non era nata, ma era già in grembo ad Aposa. La burrasca durò diversi giorni ed Aposa in piena notte ebbe dolori fortissimi al ventre, era quasi al termine della gravidanza. Quella notte, non ce la faceva più ad un certo punto gridò “Fero, chiama la levatrice, credo che il momento sia giunto”. Fero corse dal

capitano, lo trovò come sempre al timone “comandante, Aposa è in preda alle doglie, io davvero non ho pratica in materia, abbiamo bisogno della tua donna, che già in questi giorni, ha dato buoni consigli”. Il comandante Isio, senza esitazione, chiamò il secondo al timone e insieme svegliarono la donna. “Licena, sveglia”, sussurrò il comandante Isio “il momento è giunto,

Aposa è in preda ai dolori del parto”. La donna, senza esitazione in pochi istanti fu accanto ad Aposa. Non passò molto tempo e Fero, che andava avanti e indietro per il ponte della nave, sentì i vagiti del nuovo arrivato. A questo punto egli accorse e fu un po’ deluso, quando seppe che era

femmina, in cuor suo pur non confessandolo mai, egli sperava fosse maschio.

Il viaggio continuò ed il mare fu ancora agitato per molto tempo. Ad un certo punto il comandante Isio, visto l’andazzo e allarmato da un guasto alla vela anteriore, prese una decisione e la comunicò a tutti. “Purtroppo siamo costretti a cambiare rotta, le condizioni attuali del mare, non ci

permettono di raggiungere la Tuscia, per la solita via, circumnavigando la Trinacria, ma risaliremo l’Illiria e raggiungeremo Adria”. Precisò poi ”non siate delusi, sappiate che qui il nostro popolo sta costruendo nuovi insediamenti, naturalmente chi vorrà raggiungere la Tuscia, lo potrà fare anche

da lì”. Terminò poi dicendo “con queste condizioni di mare, la vela in cattive condizioni, credetemi, io non posso che prendere questa decisione”. Diversi furono i mugugni dei passeggeri, ma alla fine tutti capirono ed il viaggio proseguì, nella direzione indicata dal comandante.

Giunsero infine ad Adria, dopo una breve sosta in Illiria per riparare la vela danneggiata. L’insediamento era proiettato nel mare e allacciato alla terraferma da un lembo di terra. Davanti a sé c’era l'isola di Loreo e di Ariano, era approdo naturale per chi risaliva questo mare chiamato Adriatico, in onore proprio alla città di Adria. La presenza Etrusca portò le prime bonifiche delle terre. Ciò comportò il fiorire dell'agricoltura e lo sviluppo dei commerci. Il comandante Isio spiegò che da qui avrebbero potuto raggiungere la Tuscia, via terra seguendo le vie di comunicazione da poco aperte. Fero ed Aposa si fermarono qui per un po’ di tempo, Felsina era troppo piccina per intraprendere il viaggio.

Ma ben presto iniziarono il cammino, assieme ad alcuni compagni ed un commerciante di ambra di nome Aucnus, attraversarono prima a bordo di alcune barche di piccola dimensione un largo corso d’acqua. Raggiunsero poi l’insediamento di Spina in cui si stava costruendo un nuovo porto che avrebbe evitato in futuro l’attraversamento da parte dei viandanti di quel largo fiume e giorni di cammino. Anche qui sostarono qualche tempo, finalmente Aucnus comunicò loro che l’indomani sarebbero ripartiti. Così fu, dopo un breve tragitto tra valli e folte selve raggiunsero un corso d’acqua molto più piccino rispetto a quello attraversato in precedenza. Aucnus li avvertì che avrebbero seguito quel corso d’acqua fino alla sorgente, attraverso la pianura sarebbero giunti presto in vista prima di dolci colline, poi a monti sempre più alti che avrebbero valicato per giungere infine alla Tuscia. In vista delle dolci colline Fero comunicò ad Aucnus, la volontà di fermarsi qui con Aposa e la piccola Felsina. Ancora in pianura, quel luogo gli apparve come magico, dalle colline scendevano rii e corsi d’acqua, alcuni compagni decisero anch’essi di seguire Fero e fermarsi qui. Cominciarono poi a costruire capanne per proteggersi dagli elementi, qui faceva molto caldo in estate, ma il freddo era pungente nella stagione invernale. La famiglia crebbe ed anche le abitazioni si moltiplicarono attorno al rio che avevano scelto per vivere. Fero assieme agli altri uomini decisero così di unire le due rive costruendo un bel ponte. Usarono dei grossi blocchi di arenaria che  si trovava in grande quantità nel greto del rio. Era il primo embrione della nuova città, al ponte fu dato il nome di Fero in onore a colui che si era affermato come il leader di quel manipolo di uomini e donne che con grande coraggio avevano deciso di insediarsi qui. Qui sostavano tutti coloro che venivano da Adria o provenivano da nord per raggiungere la Tuscia. Attorno al primo nucleo abitativo altre costruzioni furono erette e ben presto Fero ed i suoi costruirono mura a difesa della nuova città. Verso le numerose valli che da qui si dipartivano verso la Tuscia , partirono molti giovani del villaggio creando altri insediamenti. Il più importante di questi fu edificato sul piano di Misano e prese il nome di Kainua.

Ieri sul fare della sera Fero, Aposa e la piccola Felsina, sono rientrati nella loro città dopo aver trascorso alcuni giorni a Kainua, ospiti dell’intraprendente Acnos. Affacciata sul fiume chiamato Reno, che costituisce un formidabile vettore di transito dalla Tuscia al grande fiume della bassa, Kainua ha l'importante ruolo di cerniera di smi­stamento delle merci lungo tale asse. In particola­re il flusso di metalli dalla Tuscia sostanzia una vivace attività metallurgica, sia per quanto riguarda il bronzo che il ferro. Cospicua è anche la produzione ceramica, sia di stoviglie che laterizi, alimentata dalla buona qua­lità dell'argilla locale e dalla ricchezza di acqua, imbrigliata con grande maestria in un capillare sistema di captazione e relativo smaltimento. Il giovane Acnos in pochi anni ha costruito tutto questo. Egli è però ancora fedele e sinceramente attaccato a Fero, non dimentica quello che fece per il padre nell’antica patria. Portandolo  con sé nella nuova avventura, salvandolo dal carcere e dal precipizio in cui era caduto dopo aver capeggiato la fallita rivolta contro il sommo sacerdote Airtis. “Sono stati quattro giorni meravigliosi”, commenta Fero. “Certo, quel magnifico prato come un terrazzo circondato dalle colline, affacciato sullo scorrere lento del fiume. La nostra Felsina rincorreva farfalle e lucertole…..e noi caro….a fare all’amore, come due ragazzini “. Ma il momento magico ha un breve durata. Nel primo pomeriggio Aposa, scende al rio attraversando il ponte di arenaria che Fero e compagni hanno costruito, la cesta sottobraccio contiene indumenti dei familiari che intende lavare presso “il salto della capra”. Giunta alla cascatella, uno sbalzo così denominato perché gli agili animali superano con un solo saltello. Appoggia la cesta sul grande masso levigato, ma nel girarsi appoggia il piede sinistro sulla melma ancora fresca e cade a testa in giù nella buca, battendo pesantemente il capo su un masso appuntito. Il suo corpo privo di sensi viene trascinato velocemente a valle, dalla corrente. Passano un paio di ore, a dare l’allarme è Marsica, una vecchia donna scesa a pomeriggio già inoltrato al salto della capra, vede la cesta ed una macchia di sangue appiccicata sul masso appuntito. La ricerca di Aposa prosegue fino a tarda sera, ma il suo corpo non si tova e non si troverà. Perciò in ricordo di lei, la comunità , decide di dare il suo nome a quel piccolo corso d’acqua. Altro tempo trascorre Fero è sconsolato per la perdita della sua donna, ma si alza con il fermo proposito di far prosperare questo luogo, ormai ha deciso di fermarsi qui. Ogni giorno appena sveglio, scende alla cascatella fatale e prega gli Dei e piange la sua amata. Ma poi rinfrancato, affronta la giornata dedicandosi al rafforzamento della nuova città guidando la sua gente, accogliendo i nuovi arrivati ed inserendoli nel contesto cittadino. Assieme ai compagni con i quali è giunto qui ha progettato da tempo la costruzione di una cerchia di mura che cingano la città. Difendendola dagli attacchi di orde selvagge di uomini che vengono dalla pianura. Sono uomini selvaggi vestiti di pelli rovesciate dal capello biondo o rossiccio. Da tempo immemorabile pare scendano dalle grandi montagne che stanno oltre il grande fiume che taglia la bassa in due. Hanno stabilito la loro base di partenza  su due isolette difese dall’acqua dal fiume che scende dal grande lago. Fero ed i suoi sin dal loro arrivo sentirono parlare di queste genti nordiche che il loro conterraneo Tarconte aveva combattuto presso quelle due isolette, ma ne ebbe la peggio. Ritirandosi più a sud oltre il grande fiume soprannominò quel luogo Mantus, divinità infernale del Pantheon Etrusco. Le nuove mura sono solide e difendono ora la nuova città che sta diventando nodo strategico di tutti i traffici tra la Tuscia ed Adria. Arriva una nuova estate Fero ed i suoi continuano la loro opera. La canicola ha raggiunto il massimo e Fero sospende nelle prime ore del pomeriggio la consueta attività per riprenderla più tardi, quando la brezza scende lieve dalle colline. Riposa un oretta ed altrettanto fa la figlia Felsina, dopo aver terminato le attività domestiche. Ella è ora una bella giovinetta, piena di vita, a cui la vecchia Marsica dopo la scomparsa di Aposa ha dedicato tutta se stessa. “Un segno divino….oh padre”, Felsina con la caraffa  dell’acqua fresca tra le mani “Su dammi da bere…” sbotta Fero assetato come sempre al risveglio dalla pennichella. La giovinetta impertinente, aveva assistito pochi giorni prima alla festa del solstizio, Fero e gli altri anziani in modo animato discussero sul nome da attribuire alla nuova città, ora che anche le mura erano terminate ed essa si presentava solida e prosperosa. “Padre pazienta un attimo….un sogno terribile….ti devo svelare…Tifone nel sonno mi è apparso”. Aveva membra smisurate, era metà uomo e metà bestia. Aveva la testa d'asino, le ali da pipistrello ed era più alto della più alta montagna del mondo. Con le mani riusciva ad acchiappare le stelle e con le gambe riusciva ad attraversare il mare Egeo in 4 passi dalla penisola Ebea fino alle spiagge di Troia. Sulle spalle aveva 100 serpenti che invece di sibilare, a volte latravano come cani, a volte ruggivano come leoni. Ognuna delle gambe era formata da due draghi attorcigliati, orribili a vedersi che facevano capolino con le teste, da dietro le anche. La sua barba e i suoi capelli ondeggiavano al vento e dagli occhi fuoriuscivano lingue di fuoco e lui sputava di continuo massi incandescenti.

Egli mi ha confidato” Fanciulla, tuo padre non potrà essere dissetato e la disgrazia ricadrà su tutti voi, se la nuova città non porterà il tuo stesso nome”. Fero è uomo forte e coraggioso, rispettoso delle divinità. Non esita un attimo, scende immediatamente dal giaciglio per fortuna in mattinata si è riunito con i suoi ed hanno aggiornato al pomeriggio il consiglio degli anziani. Con la gola secca e Felsina al suo fianco raggiunge il luogo dell’adunanza, egli spiega ai molti già presenti la situazione. Invita poi la figlia a prendere la parola per aggiungere, quanto da lei ulteriormente appreso circa il sogno. Felsina appare subito convincente “ho appreso da Tifone che Zeus fu aspramente redarguito dalla figlia Atena, che gli ricordò come da lui dipendesse il destino dell'umanità. Le due divinità assunsero così anch'esse proporzioni gigantesche ed affrontarono il mostro sul monte Casio, ai confini dell'Egitto. Nel primo, durissimo scontro Atena fu messa fuori combattimento in pochissimi istanti, ma subito dopo Zeus riuscì a respingere Tifone con un potente fulmine e quindi ad abbatterlo a colpi di falce. Quando però il re degli dèi si avvicinò per scagliare il colpo decisivo, Tifone gli strappò l'arma dalle mani e lo ferì gravemente, imprigionandolo poi in una caverna della Cilicia ……”.  “Non c’è bisogno di perdere altro tempo”. Interviene Atmos l’amico più fedele del padre, “da giorni ci logoriamo su questa vicenda senza una decisione, questo è il segno che aspettavamo”. E’ un boato, tutti sono convinti che la città d’ora in poi si chiamerà Felsina. Fero finalmente….si disseta. L’avvenente fanciulla divenne poi donna e madre stimata, fierissima e sempre memore di quel giorno…..indimenticabile.

domenica 25 dicembre 2022

 IL PETTIROSSO E BABBO NATALE


Non c’era niente, solo neve e ghiaccio qui. L’anno scorso mi ero ritrovato in trappola al sole Africano, per Natale. Per questo ora ero salito fin qui. Nella natura selvaggia della Penisola Scandinava, era molto tempo che non riuscivo a sfuggire all’assenza di speranza.

Ora vidi Il vecchio seduto a terra, con la schiena contro un albero. L’albero era uguale a migliaia di altri che avevo già visto. Era un pino, non un abete. L’uomo teneva gli occhi chiusi e portava un cappotto rosso. Avrà avuto settant’anni, forse di più. La faccia, sopra la barba, era arrossata, segnata dalle intemperie. Per un momento pensai che fosse morto. Era immobile.

Improvvisamente volse lo sguardo, proprio verso di me:

- Ahh, sei qua, sei quasi puntuale.

Disse, in Inglese, con un accento impeccabile.

- già -Replicai con la solita apatia- Lui, si alzò faticosamente, puntando una mano a terra per fare leva.

Si sente bene, signore? - chiesi.

-Raramente- disse ed aggiunse: -Ma non smetto di sperare. E bisogna sempre sperare, no? A qualsiasi età.

Non avevo una risposta. Come facevi a sperare quando la cosa migliore di tutta la tua vita non c’era più?

Un passerotto infreddolito atterrò accanto allo scarpone sinistro del vecchio. Si guardò intorno, muovendosi a scatti come fanno tutti gli uccelli.

Il vecchio ora tese la mano e poi chiuse gli occhi.

-Spero proprio che questo uccello si posi sul mio dito!

E’ matto – pensai e cercai di farmi venire in mente una scusa per allontanarmi, balbettai:

-Ohh, sono davvero in ritar…

Ma in quel momento, l’uccellino volò sull’indice dell’uomo. Poi come se mi avesse letto nel pensiero, disse:

-Ricordi quando avevi nove anni, Francesco?

Francesco. Come faceva a sapere il mio nome?

-Ti ricordi quella casetta per gli uccelli che avevano i tuoi genitori? Ti ricordi che vedevi gli uccelli che arrivavano e non trovavano il mangime? Ti ricordi quella mattina di Natale, quando sei uscito a portare da mangiare agli uccelli prima ancora di aprire i regali? Ti sei messo le pantofole di tuo padre e sei uscito sul prato coperto di brina.

Il terrore, mi afferrò alla gola, la mia fronte era arroventata, mi girai e con tutte le forze rimaste mi diressi in albergo. Febbre altissima fino alla vigilia di Capodanno. Il dottore, al mio risveglio era lì al mio capezzale e lapidario sentenziò:

- Finalmente, voi Mediterranei, non siete abituati alle nostre latitudini.


sabato 8 ottobre 2022

 

LA STREGA ENORMISSIMA

 

Il rogo è pronto, la piazza di S. Domenico comincia a popolarsi, fa già un gran caldo questa mattina, è il 14 luglio 1498 e sul quel rogo, ci salirò io Gentile Budrioli. Siate tutti maledetti, soprattutto tu Ginevra che non hai esitato a voltarmi le spalle. Forza cosa aspetti porco di un boia ad attizzare quel falò, sappilo io non ho certo nessuna paura, dopo quello che mi avete fatto patire nei giorni scorsi. Mentre grido, mi cosparge di pece e prepara anche il cappio da appendermi al collo lui dice:  “E' per farmi soffrire di meno, una grande intercessione dell'inquisizione nei tuoi confronti, fosse per me ti brucerei a fuoco lento”. Ancora non vuole darmi la soddisfazione di salire ed accendere la pira, aspetta che la piazza si riempia e tutti possano assistere.

“Puttana di una strega devi avere il tempo di riflettere ancora un po’ sulle tue malefatte,  risponde alle mie imprecazioni quel ribaldo mascherato”.

In un attimo rivivo tutta la mia vicenda.

Mi ero da poco maritata con Alessandro, io di nobile famiglia, lui notaro di gran nome, i Cimieri esercitavano lì al Torresotto di Portanova presso Piazza S.Francesco. Lui pieno di impegni per il suo ufficio, mi trascurava. Io ero assetata di conoscenza, avevo un debole per l'astrologia e le nuove scienze pure se osteggiate dalla chiesa ed una gran voglia di vivere. Mi sentivo stretta tra quelle quattro mura, Alessandro non faceva altro che farmi fare un figlio dopo l'altro e solo di questo secondo lui mi sarei dovuta occupare. In quel periodo seppi che all'Università Scipione Manfredi, teneva conferenze su quelle nuove tematiche. Mio marito era talmente occupato nelle sue faccende, che in un primo tempo neppure si accorse che io avevo preso a frequentare quelle lezioni. Ma una donna venne presto notata in quel contesto. Ed un giorno a pranzo “Mentre io sgobbo da mane a sera, tu ti trastulli prigioniera dell'oratoria di quel pianta balle, arrivato all'università. Mi meraviglio come l'Alma Mater abbia potuto arruolare tra le sue fila, un cialtrone del genere e tu nobildonna mia moglie, là a pendere dalle sue labbra, anziché qui ad accudire i tuoi figli”. Io non potei neanche replicare, sarebbe stato inutile, ogni cosa avessi detto si sarebbe ritorta contro di me. Anche perchè lui rincarò la dose “Lo sai bene che l'esoterismo e la stregoneria sono quanto di più condannabile esista in città, i Domenicani possono rovinarci in due e due quattro”. Non potevo certo dargli torto, cedetti immediatamente al suo richiamo e non frequentai più quei corsi, ma conservai di nascosto e dentro di me, sia gli appunti che le conoscenze acquisite. Maturai inoltre in quel tempo una convinzione che mai è vacillata in me da quel momento in poi “Le vere streghe sono cinque: il pregiudizio, la menzogna, l'ignoranza, la maldicenza e l'invidia”. Mi chiusi poi per un lungo periodo lì nel Torresotto e quando rimanevo sola libera da incombenze, salivo su nel granaio. Mi sedevo lì vicino allo spioncino che guardava la piazza e la chiesa di S. Francesco ed era  un piacere stupendo godermi da lì i raggi di sole che filtravano ed i colori del tramonto. Ripresi poi i miei appunti e meditai su quanto avevo appreso dalle lezioni del Manfredi. Un pomeriggio poi fui colpita da un uomo anziano che con passo claudicante ed uno sportone nella mano destra, da cui sporgevano delle verdi piantine. Con passo lento e compassato attraversò la piazza ed entrò in chiesa da una porta laterale. Lì per lì subito lo notai e mi chiesi “che ci fa in chiesa quel vecchio del contado con quel fardello?”. Qualche istante dopo lo vidi uscire e le piantine erano sparite, nella sua mano destra non restava che lo sportone. Siccome la scena si ripropose nei venerdì seguenti, la mia curiosità si scatenò. Ormai avevo capito che lui veniva in città il venerdì a metà pomeriggio e questa volta anch'io scesi in piazza approfittando dell'assenza di occhi curiosi, lo seguii ed osai entrando dopo di lui. Aggirò l'altare maggiore e fece per salire la scala verso la canonica. Intanto una figura imponente apparve dalla seconda rampa di scale e gli si fece incontro. “Oh siete voi, frate Silvestro...”, esclamò l'uomo. Io per non essere notata, pronta mi inginocchiai lì sulla prima panca e fingendo di pregare, assistetti a tutta la scena. Il frate un uomo dall'aspetto affascinante, scuro di capelli e dalla folta barba nera, lo salutò brevemente e gli chiese “Mi hai portato la ruta e la verbena, i miei alambicchi attendono solo l'arrivo di queste ultime due erbe....”, l'uomo aprì lo sportone e senza profferir parola gli consegnò tutto il contenuto e salirono le scale. Io non intesi altro ma quella parola “alambicchi” pronunciata da Frate Silvestro, accese la mia fantasia. Alchimia, erbe medicinali. Di certo lui si occupava di questo ed era lì a due passi, da casa mia, non mi sarei certo fatto sfuggire l'occasione. Cominciai a frequentare con assiduità la chiesa di S. Francesco ed il giorno da me sospirato arrivò. A turno i frati tutti al di là delle loro mansioni giornaliere, dovevano periodicamente prestare servizio al Confessionale. Confidai a lui le mie difficoltà passate e la grande sete per la conoscenza che mi animava. Con un filo di malizia aggiunsi “Certo i miei studi presso il Manfredi si sono interrotti sul più bello, le esperienze pratiche sulle erbe officinali....”. Non terminai neppure la frase che lui intervenne “Mia cara, siete una donna veramente fortunata, io vi assolvo e dopo la doverosa penitenza che vi assegno e che reciteremo assieme, vi mostrerò il mio laboratorio. Se vorrete apprendere l'arte erboristica, vi dico che sono alla ricerca di un aiuto e sarò molto contento di mettervi a conoscenza delle mie esperienze in campo medico”. Andò proprio così ed io con  Frate Silvestro ed i suoi alambicchi facemmo squadra. Mio marito come sempre era sommerso di lavoro e vedeva di buon occhio la mia nuova frequentazione ecclesiastica, anche e soprattutto perchè le chiacchiere del vicinato si attenuarono. Imparai in fretta la proprietà di tutte quelle erbe curative e cosa ancor più importante, dopo il breve apprendistato frate Silvestro, mi introdusse nell'infermeria Francescana. Io lo assistevo ascoltavo e ci consultavamo per fare diagnosi e consigliar rimedi, la mia formazione ed i miei studi precedenti mi consentirono inoltre di superarlo presto. Lui era mite e capiva e non mi ostacolò mai, anzi mi incoraggiava ed io ebbi sempre grande rispetto nei suoi confronti. Tanti Bolognesi venivano da noi, dapprima soprattutto poveri, ma con il passar del tempo, anche dalle classi agiate si presentarono a noi per chieder pozioni e consigli. Alessandro Cimieri Notaro mio marito non pareva più quello di prima, visto che anche i notabili della città si presentavano all'infermeria, cominciò ad apprezzare la mia attività erboristica. Poi l'improvvisa scomparsa di frate Silvestro, lui che aveva speso la vita per curare gli altri, non si era mai preso troppa cura di se stesso. Ora io non avevo più accesso all'infermeria Francescana,  altri quattro frati che si occupavano assieme a frate Silvestro dell'erboristeria,  mai mi avevano visto di buon occhio e colsero lesti l'occasione per sbattermi fuori. Ma la voce si era sparsa in città e molti bussarono al Torresotto di Portanova presso la nostra abitazione, reclamando i miei servizi. Una mattina bussò addirittura alla nostra porta Zenobia Aldrovandi, la governante della Principessa Ginevra Sforza, maritata ora con Giovanni II Bentivoglio. Quando la nostra serva aprì in presenza di mio marito, Zenobia chiese di me e dopo essersi presentata “La Principessa ha un grave problema il piccolo Ermes, il penultimo dei sedici figli che ha dato a Messer Giovanni è in preda a forti febbri ormai da una settimana. Lei teme possa fare la fine dei cinque che ha già perso in passato. Chiede perciò che vostra moglie venga a palazzo a vederlo”. Io ero al mercato delle Erbe ed Alessandro mandò la serva a cercarmi, pregandomi di raggiungere immediatamente Palazzo Bentivoglio. Passai al Torresotto, salii al granaio e presi la boccetta con il preparato diaforetico. Poi quasi di corsa, mi diressi in strada S.Donato, quella era la mia grande occasione. Arrivai alla cancellata del grande edificio, il più maestoso e di gran lunga il più bello della città, iniziato da più di dieci anni, ma non ancora terminato. Venni riconosciuta, mi fu aperto. Zenobia si fece incontro e mi condusse attraverso lo scalone in travertino all'interno dell'edificio. Nell'androne su di un ponteggio, erano arrampicati tre uomini che affrescavano le pareti. Uno lo riconobbi immediatamente era Lorenzo Costa, colui che già aveva dipinto il ritratto di Giovanni II ed anche la famiglia Bentivoglio tutta,  lì vicino in S.Giacomo. Salimmo anche questa ulteriore rampa di scale, accedendo ad una grande sala completamente affrescata. Di fronte, in fondo alla sala un grande camino con il fuoco acceso, attorno a poca distanza una sorta di grande panca, ricoperta da morbidi cuscini damascati. Zenobia mi fece accomodare lì, pregandomi di aspettare. Mi sedetti, osservai le pareti laterali, mentre lei si infilò nella prima delle quattro porte presenti sulla parete alla mia destra. Già dal basso erano dipinti, una serie di scene allegoriche riguardanti la famiglia, dalle sue origini ai tempi più recenti, poi man mano verso l'alto storie di Santi e la vita di Gesu', la Passione e la sua Resurrezione. La volta ed il soffitto, affreschi allegorici legati al Vecchio Testamento, fino alla creazione, ed una grande luce, avvolgente la figura centrale di Dio. Una vera meraviglia, nella mia vita mai avevo visto nulla di simile. Ero ancora  con il naso all'insù, quando si riaprì la porta ed accanto a Zenobia apparve colei che tutti ormai da molti anni vedevamo come la “Regina della città”, Ginevra Sforza. In prime nozze aveva sposato il vecchio cugino di Giovanni II, Sante Bentivoglio. Certo un matrimonio di puro interesse, per legare le due famiglie gli Sforza signori di Pesaro ed appunto i Bentivoglio ormai signori incontrastati della città Felsinea. In città correva voce che già dai primi tempi del matrimonio con Sante, lei se la intendesse con Giovanni II, di lei più giovane di tre anni. Infatti poco prima della morte di Sante, erano nati due figli, che secondo i maligni erano frutto di quel rapporto fraudolento. Ma lei era scaltra e già con il primo marito, ebbe una grande influenza su di lui nella gestione del potere familiare. Sposando il più giovane Giovanni prese “due piccioni con una sola fava” , legalizzando completamente quell'amore nascosto e salendo ancor più in sella nella gestione familiare. Viste le circostanze le presentazioni furono sbrigative e Zenobia, ci lasciò sole. Ginevra mi manifestò la sua preoccupazione per la salute di Ermes. Io non esitai e giocandomi appieno la mia carta “Madonna, vi chiedo di vedere il piccolo Ermes e intanto fate scaldare dell'acqua e preparate delle pezze di lino”. Così avvenne io versai venti gocce della pozione diaforetica in un bicchiere ed aggiunsi acqua calda. Spiegai a Ginevra che la mistura era a base di menta ed eucaliptolo con aggiunta di chiodi di garofano e miele di acacia, aveva la funzione di aprire le vie respiratorie del piccolo Ermes. Mentre le pezze di lino opportunamente imbevute nell'acqua ormai quasi bollente, dovevano essere posizionate rispettivamente sulla fronte, sui polsi e sulle caviglie del piccolo. Avrebbero dovuto ripetere l'operazione almeno quattro volte fino all'indomani ad intervalli regolari. Io sarei ripassata il giorno successivo, per constare se la febbre avesse cominciato a calare. Così fu, quando ritornai, trovai Ermes quasi sfebbrato, la sua tosse molto secca ed insistente il giorno precedente, era ora più blanda ed ammorbidita dalla pozione. Lessi negli occhi di Ginevra, una vena di commozione e ringraziamento, che subito mitigò. Io capii che il ghiaccio era rotto, lei mi chiese “Mia cara Gentile, come posso sdebitarmi con voi?”.

-Principessa è stato un vero onore per me poter esser utile, con le mie erbe, alla salute del piccolo Emes.

-Io e mio marito ve ne saremo grati. Intanto fate sapere a vostro marito che collabora con noi saltuariamente, che d'ora in poi molte faccende legali e sotto l'aspetto notarile legate alla nostra famiglia, gli saranno affidate. Per quanto riguarda voi, mia cara Gentile, io avrei piacere di ragionare attorno a questioni di astrologia, in cui sono certa siate molto addentrata.

Da quel giorno io presi a frequentare assiduamente Palazzo Bentivoglio e Ginevra. Mio marito, non poneva più alcun ostacolo, visto che i suoi affari grazie a quell'episodio lievitarono ulteriormente. I Francescani però, dai quali mi ero staccata completamente dopo la morte del mio protettore Frate Silvestro, diventarono sempre più velenosi nei miei confronti. Non digerivano il fatto che al Torresotto di Portanova, lì a due passi da loro, ci fosse la fila di gente che voleva incontrarmi e ritenevano avessi rubato loro il mestiere. Come  una volgare femmina venni marchiata, visto che venivo quasi idolatrata, dopo l'episodio della guarigione del piccolo Ermes. Ginevra mi invitava continuamente a palazzo e questo era per me il salvacondotto, anche contro le maldicenze dei Francescani.

Le cose si erano messe al meglio, Ginevra mi ricopriva di beni e di attenzioni, mi trattava come la sua consigliera di fiducia. Stava chiusa nello splendore della sua casa, rifuggendo dal contatto della vita cittadina. In particolare aveva accentuato questo suo comportamento dopo la congiura dei Malvezzi quegli eventi della fine novembre del '88, l'avevano resa ancor più acida. Lì a palazzo, consumava se stessa e la sua anima nei dubbi e nei sospetti verso altre famiglie della città, che  vedeva come piene di invidia rispetto a Giovanni II ed a lei. Io comprendevo perfettamente, il suo stato e anziché incoraggiarla a riprendere fiducia nel suo prossimo. Sicuramente per egoismo, non la spinsi mai a riprendersi, la visibilità e gli onori da parte di una città che assai meschina era salita ormai tutta sul “carro Bentivolesco”. Passarono in tal modo diversi anni ed io ero sempre più intima di Ginevra e lei sempre più superstiziosa. Proprio in quel tempo si presentò una mattina al Torresotto di Portanova chiedendo di me un tal Ubaldo Aldobrandini. Io non c'ero lui lasciò questa ambasciata per me”dite alla vostra padrona, che ripasserò domani a quest'ora, vengo da parte di Galeazzo Marescotti ed il mio signore ha bisogno dei suoi servigi”. Quando la serva me lo disse, passai tutta sera e la notte a rimuginare su quella visita. Io sapevo bene chi era il vecchio Galeazzo Marescotti. Si era salvato, dopo la congiura, sol  fuggendo precipitosamente da Bologna, diversi anni prima. Lui aveva tramato con i Malvezzi per abbattere lo strapotere dei Bentivoglio in città. Quindi ero turbata, di sicuro loro sapevano che frequentavo Palazzo Bentivoglio e del legame che avevo con Ginevra. Difatti l'uomo si presentò puntualmente all'indomani. Io lo ricevetti nello studiolo di servizio di mio marito Alessandro, ed ebbi la conferma dei miei sospetti. “Il mio signore è lontano, ma mi incarica di portarvi questa missiva, vista la vostra influenza presso la Madonna Ginevra. Lui vi chiede di farmi avere la vostra risposta per iscritto entro una settimana, giusto il tempo che io mi fermo qui, presso il Legato Pontificio”. Mi disse anche che si trattava di una faccenda assai riservata, visto che c'era di mezzo la figura del nuovo Papa Alessandro VI. Congedai quindi l'Aldobrandini, con la promessa che ci saremmo rivisti la settimana successiva. Quindi lessi la lettera, scritta di pugno dal Marescotti:

 

Mia cara,

La vostra fama e gli effetti stupefacenti delle vostre erbe, che hanno quasi del miracoloso sono giunte anche qui a Roma. Come voi certamente sapete, io da alcuni anni sono dovuto riparare qui, dopo la triste ed inquietante vicenda che ha coinvolto anche la mia famiglia. Ma io e mio fratello sempre rimpiangiamo la nostra Bologna e nonostante ciò che abbiamo subito, io la perdita della mia cara moglie e mio fratello la perdita del figlio maggiore per mano dei sicari Bentivoleschi, siamo pronti al perdono. Ora anche Papa AlessandroVI, di cui noi ora siamo fedeli servitori, desidera che il perdono ritorni come forza sovrana a regnare in città. Il Pontefice si farebbe volentieri garante in prima persona di questa operazione, ma il suo ministero gli impedisce di agire direttamente. Lui ritiene perciò che il primo passo spetti a Messer Giovanni Bentivoglio. Si presenti perciò al soglio Pontificio con moglie e figli e qui l'operazione si potrà finalmente compiere ed a Bologna ritornerà la concordia del tempo perduto. Vi chiedo pertanto, mia cara, di intercedere presso Madonna Ginevra, perché sappiamo bene della  influenza che ella da molto tempo vanta sugli affari del marito.

Seguivano i convenevoli di rito ed un ulteriore accenno alla mia attività di erborista “la quale non dovrebbe mai sfociare in qualcosa di satanico”, una sfumatura che mi creo' un lungo brivido di paura e smarrimento. Più  riflettevo su queste parole, comprendevo che mi ero cacciata, proprio in un grande pasticcio proprio al centro del loro ricatto.  Pensavano che io avessi Ginevra in pugno, avere la sua completa fiducia equivaleva condizionare anche le scelte di Giovanni. Davvero non sapevo che fare, se avessi forzato Ginevra, lei si sarebbe insospettita immediatamente. Ma non avevo scelta e l'indomani, a Palazzo Bentivoglio, informai Ginevra. “Vigliacchi, Io, Giovanni ed i miei figli, non andremo mai a Roma, dopo la congiura, il Marescotti ed i suoi compari, hanno continuato a tramare  contro di noi. Si sono ingraziati Papa Alessandro, che non vede l'ora, dopo che ha piazzato Lucrezia a Ferrara, di insediare il Valentino a Bologna. Riguardo a voi Gentile, se avete a cuore l'amicizia che ci lega, non vi immischiate in questa faccenda”. Non replicai, conoscevo ormai troppo bene Ginevra, per forzarla ulteriormente.

Non passarono che poche settimane dal diniego a cui fui costretta nei confronti del Marescotti, che ricevetti al Torresotto l'irruzione dell'Inquisizione. Bussarono all'alba ed entrarono con la forza nel mio laboratorio mettendolo sottosopra, mi dissero di aver trovato prove inconfutabili. “maledetta strega, ora avrai pane per i tuoi denti aguzzi”.

Ginevra avrebbe comunque potuto intercedere a mio favore attraverso gli emissari Bentivoleschi a Roma, in quei giorni, ma non lo fece.

 Ora  qui, su questa pira, dopo torture e violenze indicibilili li ho accontetati ho confessato anche ciò che non ho mai fatto, tra cui l'unione carnale con il demonio, almeno mi hanno risparmiato ulteriori sofferenze ed umiliazioni. Mentre finalmente il boia accende la fiaccola e la depone sotto le fascine, l'ultimo pensiero è per Ginevra “pure la tua fine non è lontana”.

Le fiamme ora sono alte ed avvolgono completamente Gentile, che se ne va senza un lamento,perché il cappio appeso al collo ha fatto un buon lavoro. Li vicino a palazzo Bentivoglio, dietro la vetrata del terzo piano Ginevra piange a dirotto. La sua amica ora non c'è più e lei non ha potuto fare nulla, ma piange soprattutto perché ha capito che a Bologna per i Bentivoglio ormai non c'è più futuro.