domenica 24 marzo 2013

QUANDO PENSAI DI VENDERMI I BEATLES

Di Brian Epstein Manager della famosa Band da il Giornale del 20/3/2013

«Guardami negli occhi», rispose il giornalista, «e ripeti: non venderò mai i Beatles». Ancora una volta distolsi lo sguardo e non diedi alcuna risposta. Mi sentivo terribile. Non avrei mai creduto, sei mesi prima, che sarebbe giunto il momento in cui avrei potuto nutrire il minimo dubbio sul mio futuro con i Beatles o, se è per questo, con nessuno dei miei artisti.
Ma la verità era che, proprio quella settimana, stavo per decidere se rimanere nel business come unico direttore di tutte le persone giovani e meravigliose che mi avevano cambiato la vita. Mi era stata fatta una difficile e genuina offerta di 150mila sterline in contanti, solamente per quel giorno, per una quota sui Beatles. Tre giorni dopo, in un ristorante di Londra, cenavo con l'uomo che mi aveva fatto l'offerta.
L'offerta interessava per il 50 per cento tutti i miei artisti e la mia società di gestione, per darmi la plusvalenza di 150mila sterline e per permettermi l'ultima parola sul tipo di lavoro fatto dai Beatles e alleviare lo stress; ma il mio potere, come risultato, sarebbe rimasto limitato. Anche se non la trovavo molto interessante, questa offerta avrebbe messo fine a molte preoccupazioni e tensioni.
Risposi al mio influente interlocutore: «Ho bisogno di tempo. Conosci le opinioni che ho avuto finora, ma c'è una cosa che devo fare. Devo parlarne ai Beatles».
Costruii nella mia mente un piano completo. Avrei venduto i Beatles e tutti i miei artisti eccetto uno, che avrei mantenuto sotto un'unica direzione. Degli altri artisti sarei diventato manager personale e l'agenzia con la quale avrei concluso l'affare si sarebbe fatta carico di tutti i mal di testa e di una grande quantità di reddito.
Ma prima di tutto dovevo vedere i Beatles. Li incontrai nel mio appartamento e dissi loro: «Come vi sentireste se qualcuno prendesse il mio posto?», e George, senza alzare lo sguardo, mormorò: «Stai scherzando». «Non sono mai stato più serio in vita mia», dissi, e Ringo disse a sua volta: «Dillo di nuovo». Così ripetei: «Come vi sentireste? È un'agenzia molto valida». John, il Beatle letterato, disse poi: «Rimarremo col culo per terra». Paul disse qualcosa di diverso, addirittura meno educatamente, così aggiunsi: «Non mi sembrate molto entusiasti». Tutti loro mi guardarono come se fossi pazzo. Dissi: «Dovete saperlo. Non sono sicuro di poter fare per voi tutto ciò che dovrei. L'organizzazione sta diventando molto grande e la pressione è troppa. Altrove potreste essere anche migliori».
I Beatles erano senza parole. Non avevano mai immaginato alcuna spaccatura nel nostro rapporto e gli spiegai, nel modo più persuasivo possibile, come ciò sarebbe potuto rientrare nei loro interessi, anche se più parlavo e meno convincevo me stesso. Alla fine mi fermai e dissi: «Allora?». E Paul disse: «Vendici e molleremo tutto. Abbandoneremo tutto domani».

sabato 9 marzo 2013

UN MERCANTE DI SUCCESSO EFFIMERO

Fino a tutti gli anni Ottanta del XIX secolo (circa trent' anni prima della bohème disperata di Modigliani e di Picasso) Parigi non era avara con gli artisti: per arricchirsi non servivano idee e tanto meno rivoluzioni stilistiche. Bastava possedere una gran tecnica, riuscire a fare ritratti somiglianti al modello ed essere virtuosi della pittura di «genere», ovvero dell' aneddoto. Si vendevano bene scene di allegre pastorelle, feste di paese, salotti popolati da damine in abiti settecenteschi impegnate a conversare con cavalieri in parrucca e scarpe di seta, oppure, scene di ameni giardini dove si intrecciavano storie d' amore. Adolphe Goupil (1806-1893), commerciante di stampe e quadri, editore di splendidi cataloghi d' arte e della prestigiosa rivista mensile Les Arts, ma anche capitano d' industria e cavaliere della Legion d' Onore. Aveva fondato la sua Maison nel boulevard Montmartre 12, inizialmente «per il commercio e l' edizione di incisioni e litografie» tratte da capolavori dell' arte antica. Ma aveva ben presto allargato l' attività alla riproduzione in copie o riduzioni a stampa delle opere contemporanee e alla vendita degli originali stessi finendo per aprire un prestigioso negozio con molte vetrine di fronte all' Opéra. Dopo seguirono succursali a Londra, Berlino, New York, L' Aia (dove lavorava lo zio di Van Gogh) e in numerose altre città fino a Melbourne e Johannesburg.
«I borghesi ricchi ritrovavano se stessi in quelle opere - scriveva il pittore e critico Francesco Netti nel 1877 -: vedevan le stesse stoffe che avevano addosso, i tappeti che avevano a casa, il lusso nel quale vivevano, e poi scarpe di raso, mani bianche, braccia nude, piccoli piedi, teste graziose. Quelle figure dipinte stavano in ozio tali e quali come loro. Al più guardavano un oggetto, o si soffiavano con un ventaglio. Le più occupate facevano un po' di musica, o leggevano un romanzo. Era il loro ritratto, anzi la loro apoteosi». Il conto finale, però, fu alto: questo gruppo di pittori, collezionisti e mercanti à la mode, mantenne una posizione a margine del più grande movimento contemporaneo: quello dell' Impressionismo coltivato invece dal mercante Paul Durand-Ruel. Il prezzo fu l' oblio della pittura chic, pagato per oltre un secolo dai nostri italiani a Parigi. Nemmeno a Goupil andò meglio: l' espressione «stile Goupil» è stata a lungo sinonimo di cattivo gusto, una definizione con cui furono bollate in senso spregiativo tutte le opere che egli aveva privilegiato.